Il
caso giunto all’esame della Suprema Corte è quello di un dipendente della
Regione che aveva ritenuto l’infarto subito una conseguenza del sovraccarico di
lavoro, delle vessazioni di un superiore gerarchico configuranti
"mobbing" e della sottoposizione a procedimenti penali collegati
all'attività lavorativa, in seguito archiviati, e, pertanto riconducibile, ex art.
2087 c.c., alla responsabilità dell’Ente.
Dopo
il rientro sul posto di lavoro dopo un'assenza per malattia, non avendo l’Ente
provveduto sottoporlo ad accertamenti medici di controllo, il lavoratore si era sottoposto
a due diverse visite presso la USL, che ne avevano accertato un'invalidità del
50% .
Accertata
la sua diminuzione della capacità lavorativa, il ricorrente aveva rifiutato il collocamento in mansioni inferiori propostogli
dal datore di lavoro, il quale, successivamente, lo aveva dispensato dal
servizio e collocato illegittimamente a
riposo anzitempo per inabilità fisica.
Per
tali motivi il dipendente si era rivolto al giudice del lavoro, chiedendo la
condanna della Regione al risarcimento dei danni biologico, da lucro cessante,
da mobbing, morale, nonché quello alla vita di relazione.
All'esito
della prova testimoniale, anche in virtù del parere espresso dalla disposta Ctu
medico-legale, il Tribunale aveva però rigettato il ricorso. Successivamente,
la sentenza di primo grado era stata
confermata dalla Corte di Appello.
Investita
della questione, la Cassazione ha affermato che la Corte di merito avesse correttamente argomentato che, per la
valutazione di responsabilità datoriale nella determinazione dei danni, non sia
richiesta un’indagine sull'assolvimento degli adempimenti imposti dal D.Lgs 626
a titolo generale e preventivo. L’analisi deve invece riguardare il rispetto
degli obblighi di tutela e prevenzione posti a carico del datore di lavoro nei confronti
del singolo dipendente.
Nel
caso in esame, dall’istruttoria non erano emerse delle modifiche al processo produttivo che
avrebbero imposto una revisione del documento di valutazione dei rischi.
La
patologia che aveva determinato l'assenza del dipendente era risultata,
infatti, di natura multifattoriale e dunque non automaticamente ricollegabile a
specifiche caratteristiche di pericolosità intrinseche nell'attività svolta.
In
assenza di evidenze epidemiologiche, di segnalazioni o indicazioni da parte dei
lavoratori interessati, la Cassazione ha
escluso che, in forza di legge, possa essere imposto al datore di lavoro una
specifica analisi del documento di valutazione sui rischi delle possibili cause
del correlato stress da lavoro.
Inoltre
la Corte d'Appello aveva correttamente escluso la supposta responsabilità
dell’Ente dopo averne accertato una condotta conforme al dovere di protezione
del dipendente, perfezionata attraverso l’assegnazione del ricorrente a nuovi compiti, rimodulati dopo la visita
della Commissione medica ed in considerazione di quanto da essa accertato, con
la revoca degli incarichi di responsabilità.
Nel
rispetto del consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, la
Suprema Corte ha poi ribadito che la responsabilità del datore di lavoro per la
violazione degli obblighi sanciti dall'art. 2087 cod. civ. non ricorre per la
sola insorgenza della malattia del lavoratore durante il rapporto di lavoro,
richiedendosi, altresì, che l'evento sia ricollegabile ad un comportamento
colposo dell'imprenditore che, per negligenza, abbia determinato uno stato di
cose produttivo dell'infermità.
Valerio
Pollastrini
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