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mercoledì 23 aprile 2014

Danno alla vita sessuale in seguito ad infortunio

Nella sentenza n.386 del 19 novembre 2013-10 gennaio 2014, la Corte di Cassazione ha confermato il diritto della moglie di un dipendente al risarcimento del danno alla vita sessuale causati dai postumi di un infortunio sul lavoro patito dal marito.

Il caso in commento era già stato posto all’attenzione della Suprema Corte che, con la sentenza n.14822 del 20007, aveva  cassato - con rinvio alla Corte di Appello di Roma - la sentenza con la quale il Tribunale di Latina, in riforma della sentenza di prime cure emessa dal Pretore della stessa sede, aveva condannato Estrusione Italia S.p.A. al pagamento  di complessivi 75.000,00 €, in favore della moglie di un dipendente che  in seguito alle conseguenze di un infortunio sul lavoro aveva patito dei danni nella sfera sessuale.

L'annullamento era stato disposto perché il Tribunale aveva fondato la propria decisione sulla documentazione depositata in appello dalla donna , senza pronunciarsi sull'eccezione di tardività della loro produzione sollevata da Estrusione Italia S.p.A..

In sede di rinvio, la Corte di Appello di Roma  aveva rigettato l'eccezione di tardività della produzione dei documenti predetti e nel merito aveva confermato la liquidazione dei danni contenuta nella summenzionata sentenza del Tribunale di Latina, richiamandone le motivazioni.

Estrusione Italia S.p.A.,  fallita nelle more del processo di legittimità, aveva nuovamente ricorso  per Cassazione, contestando la sentenza della Corte territoriale nella parte in cui era stato ritenuto che i documenti fossero stati già ritualmente depositati in prime cure unitamente al ricorso introduttivo di lite, mentre - ad avviso della società ricorrente - nel precedente giudizio di legittimità era stato accertato il contrario, tanto che l'annullamento era stato disposto proprio affinché il giudice del rinvio si pronunciasse sull'eccezione di tardività.

A detta della ricorrente, la Corte di Appello non avrebbe dovuto ammettere tale produzione nemmeno per l'asserita indispensabilità ai fini del decidere, proprio perché il deposito della documentazione era avvenuto solo dopo la proposizione dell'atto di gravame - in occasione della costituzione di nuovo difensore  -  senza che la difesa di la donna avesse in alcun modo giustificato la propria precedente inerzia.

L’azienda aveva inoltre lamentato che l'impugnata sentenza avesse accolto la domanda risarcitoria in base a documenti insufficienti a comprovarla, atteso che proprio alla luce della CTU prodotta, espletata nel giudizio civile tra l'infortunato e la società datrice di lavoro, non risultava un danno alla vita sessuale stricto sensu, essendosi invece ipotizzata una mera impossibilità di procreare (aspermia), destinata, tra l’altro, a regredire nel tempo. 

Inoltre, sempre a detta del datore di lavoro, la donna non aveva dimostrato di volere altri figli, né aveva provato la permanenza della patologia riportata dal marito, dal quale - per altro - era separata da anni.

Infine,  il danno morale, oltre a non essere stato provato, sarebbe stato  liquidato in maniera arbitraria in assenza di idonei parametri.

La pronuncia della Cassazione
La Suprema Corte ha innanzitutto premesso l'irrilevanza, ai fini del giudizio, della sopravvenuta dichiarazione di fallimento della società ricorrente, poiché nel giudizio di Cassazione, dominato dall'impulso d'ufficio, il sopravvenuto fallimento  non determina l'interruzione del processo (1).

La Cassazione ha poi rilevato che da un'attenta lettura della summenzionata sentenza n.14822 del 2007  la Suprema Corte non avesse affatto accertato la reale tardività della produzione dei documenti asserita dall'odierna ricorrente, ma si era limitata a cassare la sentenza del Tribunale di Latina per omessa pronuncia sull'eccezione di tardività sollevata da Estrusione Italia S.p.A..

Dunque, nulla vietava al giudice di rinvio di accertare autonomamente se i documenti de quibus fossero stati effettivamente già prodotti in prime cure e, poi, semplicemente ridepositati nel corso del giudizio di appello, come espressamente affermato dall'impugnata sentenza.

In proposito, la Corte del merito aveva evidenziato che tali documenti fossero stati depositati in ottemperanza all'ordinanza emessa dal Tribunale di Latina, che aveva rilevato la mancanza del fascicolo dell’appellante negli atti già formalmente depositati.

Non ponendo il ricorso questione alcuna di erronea ricostruzione del fascicolo di parte, la Cassazione ha confermato che la documentazione in questione fosse stata correttamente depositata in primo grado.

A proposito della questione risarcitoria, la Corte di legittimità ha ricordato che il danno morale e quello sessuale e alla vita di relazione rientrano pur sempre nell'ampia ed omnicomprensiva categoria del danno non patrimoniale, il quale non può essere suddiviso in ulteriori sottocategorie, se non con valenza meramente descrittiva. Va tenuto presente che la l’esistenza di tali fattispecie può essere presunta anche in base a mere massime di esperienza (2),  in particolare se basate sui rapporti personali fra coniugi, come nel caso di specie, salva restando la possibilità di prova contraria.

Quanto alle obiezioni relative ad una pretesa separazione fra l'odierna controricorrente ed il marito, nonché quelle concernenti la scelta di non avere altri figli, gli ermellini hanno rilevato l’estraneità di simili doglianze al giudizio di legittimità, in quanto richiedenti accertamenti di fatto.

In ordine  alla liquidazione dei danni la Cassazione ha poi ricordato  come la stessa, in assenza di parametri legislativi a riguardo, non può che avvenire in via equitativa.

Tornando alla specifica doglianza aziendale, la Cassazione ha ritenuto che l'impugnata sentenza non avesse proceduto ad una liquidazione arbitraria del danno.

I giudici del rinvio avevano infatti espressamente fornito una motivazione per relationem a quella già espressa dalla citata sentenza del Tribunale di Latina.

 
In conclusione, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso ed ha condannato l’azienda al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in 3.500,00 € per compensi professionali, in 100,00 € per esborsi, oltre accessori come per legge.

Valerio Pollastrini

 
(1)   - Cass., sentenza  n.17450 del 17 luglio 2013; Cass., sentenza  n.8685 del 31 maggio 2012; Cass., sentenza  n.14786 del 5 luglio 2011; Cass. S.U., sentenza  n.17295 del 14 novembre 2003;
(2)   - Cass.S.U., sentenza n.26972 dell’11 novembre 2008;

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