Il
caso in commento era già stato posto all’attenzione della Suprema Corte che,
con la sentenza n.14822 del 20007, aveva
cassato - con rinvio alla Corte di Appello di Roma - la sentenza con la
quale il Tribunale di Latina, in riforma della sentenza di prime cure emessa
dal Pretore della stessa sede, aveva condannato Estrusione Italia S.p.A. al
pagamento di complessivi 75.000,00 €, in
favore della moglie di un dipendente che in seguito alle conseguenze di un infortunio
sul lavoro aveva patito dei danni nella sfera sessuale.
L'annullamento
era stato disposto perché il Tribunale aveva fondato la propria decisione sulla
documentazione depositata in appello dalla donna , senza pronunciarsi
sull'eccezione di tardività della loro produzione sollevata da Estrusione
Italia S.p.A..
In
sede di rinvio, la Corte di Appello di Roma aveva rigettato l'eccezione di tardività della
produzione dei documenti predetti e nel merito aveva confermato la liquidazione
dei danni contenuta nella summenzionata sentenza del Tribunale di Latina,
richiamandone le motivazioni.
Estrusione
Italia S.p.A., fallita nelle more del
processo di legittimità, aveva nuovamente ricorso per Cassazione, contestando la sentenza della
Corte territoriale nella parte in cui era stato ritenuto che i documenti
fossero stati già ritualmente depositati in prime cure unitamente al ricorso
introduttivo di lite, mentre - ad avviso della società ricorrente - nel
precedente giudizio di legittimità era stato accertato il contrario, tanto che
l'annullamento era stato disposto proprio affinché il giudice del rinvio si pronunciasse
sull'eccezione di tardività.
A
detta della ricorrente, la Corte di Appello non avrebbe dovuto ammettere tale
produzione nemmeno per l'asserita indispensabilità ai fini del decidere,
proprio perché il deposito della documentazione era avvenuto solo dopo la
proposizione dell'atto di gravame - in occasione della costituzione di nuovo
difensore - senza che la difesa di la donna avesse in
alcun modo giustificato la propria precedente inerzia.
L’azienda
aveva inoltre lamentato che l'impugnata sentenza avesse accolto la domanda
risarcitoria in base a documenti insufficienti a comprovarla, atteso che
proprio alla luce della CTU prodotta, espletata nel giudizio civile tra l'infortunato
e la società datrice di lavoro, non risultava un danno alla vita sessuale stricto sensu, essendosi invece ipotizzata
una mera impossibilità di procreare (aspermia), destinata, tra l’altro, a regredire
nel tempo.
Inoltre,
sempre a detta del datore di lavoro, la donna non aveva dimostrato di volere
altri figli, né aveva provato la permanenza della patologia riportata dal
marito, dal quale - per altro - era separata da anni.
Infine,
il danno morale, oltre a non essere
stato provato, sarebbe stato liquidato
in maniera arbitraria in assenza di idonei parametri.
La pronuncia
della Cassazione
La
Suprema Corte ha innanzitutto premesso l'irrilevanza, ai fini del giudizio,
della sopravvenuta dichiarazione di fallimento della società ricorrente, poiché
nel giudizio di Cassazione, dominato dall'impulso d'ufficio, il sopravvenuto fallimento
non determina l'interruzione del
processo (1).
La
Cassazione ha poi rilevato che da un'attenta lettura della summenzionata sentenza
n.14822 del 2007 la Suprema Corte non
avesse affatto accertato la reale tardività della produzione dei documenti
asserita dall'odierna ricorrente, ma si era limitata a cassare la sentenza del
Tribunale di Latina per omessa pronuncia sull'eccezione di tardività sollevata
da Estrusione Italia S.p.A..
Dunque,
nulla vietava al giudice di rinvio di accertare autonomamente se i documenti de quibus fossero stati effettivamente
già prodotti in prime cure e, poi, semplicemente ridepositati nel corso del
giudizio di appello, come espressamente affermato dall'impugnata sentenza.
In
proposito, la Corte del merito aveva evidenziato che tali documenti fossero
stati depositati in ottemperanza all'ordinanza emessa dal Tribunale di Latina,
che aveva rilevato la mancanza del fascicolo dell’appellante negli atti già
formalmente depositati.
Non
ponendo il ricorso questione alcuna di erronea ricostruzione del fascicolo di
parte, la Cassazione ha confermato che la documentazione in questione fosse
stata correttamente depositata in primo grado.
A
proposito della questione risarcitoria, la Corte di legittimità ha ricordato
che il danno morale e quello sessuale e alla vita di relazione rientrano pur
sempre nell'ampia ed omnicomprensiva categoria del danno non patrimoniale, il
quale non può essere suddiviso in ulteriori sottocategorie, se non con valenza
meramente descrittiva. Va tenuto presente che la l’esistenza di tali fattispecie
può essere presunta anche in base a mere massime di esperienza (2), in particolare se basate sui rapporti
personali fra coniugi, come nel caso di specie, salva restando la possibilità
di prova contraria.
Quanto
alle obiezioni relative ad una pretesa separazione fra l'odierna
controricorrente ed il marito, nonché quelle concernenti la scelta di non avere
altri figli, gli ermellini hanno rilevato l’estraneità di simili doglianze al
giudizio di legittimità, in quanto richiedenti accertamenti di fatto.
In
ordine alla liquidazione dei danni la
Cassazione ha poi ricordato come la
stessa, in assenza di parametri legislativi a riguardo, non può che avvenire in
via equitativa.
Tornando
alla specifica doglianza aziendale, la Cassazione ha ritenuto che l'impugnata
sentenza non avesse proceduto ad una liquidazione arbitraria del danno.
I
giudici del rinvio avevano infatti espressamente fornito una motivazione per relationem a quella già espressa dalla
citata sentenza del Tribunale di Latina.
In
conclusione, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso ed ha condannato l’azienda
al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in 3.500,00 €
per compensi professionali, in 100,00 € per esborsi, oltre accessori come per
legge.
Valerio
Pollastrini
(1)
-
Cass., sentenza n.17450 del 17 luglio 2013;
Cass., sentenza n.8685 del 31 maggio 2012;
Cass., sentenza n.14786 del 5 luglio 2011;
Cass. S.U., sentenza n.17295 del 14
novembre 2003;
(2)
-
Cass.S.U., sentenza n.26972 dell’11 novembre 2008;
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