Nel
caso di specie, in entrambe i gradi del giudizio di merito era stato respinto il ricorso di un lavoratore che aveva
contestato la legittimità del
licenziamento irrogatogli per sopraggiunta inidoneità fisica.
Il
Tribunale aveva però condannato l’azienda a risarcire il danno biologico,
stimato in 11.571,00 €, procurato al dipendente che, a causa delle mansioni
assegnategli, aveva subito l’aggravamento di alcune patologie sofferte in
seguito ad un infortunio occorsogli durante un precedente rapporto di lavoro
con terzi.
Successivamente,
la Corte di Appello aveva però escluso la responsabilità datoriale per
l’aggravamento della salute del dipendente, ritenendola ascrivibile allo svolgimento di attività extralavorativa
non professionistica di allenatore sportivo di calcio.
Nel
rivolgersi alla Cassazione, il lavoratore, a proposito della legittimità del
licenziamento, aveva rilevato l’insufficiente motivazione della sentenza di
merito a proposito dell’affermata impossibilità di repechage, vale a dire l’eventualità
di adibizione dello stesso in altre mansioni compatibili con il proprio stato
di salute.
La pronuncia
della Cassazione
La
Suprema Corte ha richiamato preliminarmente il consolidato indirizzo della
giurisprudenza di legittimità (1) in virtù del
quale l’impossibilità di utilizzazione del lavoratore in mansioni equivalenti deve
essere provata dal datore di lavoro quale presupposto per la legittimità del
licenziamento disposto per inidoneità lavorativa.
La
Cassazione ha poi ricordato che, in virtù della libera iniziativa economica
dell’impresa, sancita dall’art.41 della Costituzione, la valutazione del Giudice circa la sussistenza di un giustificato
motivo oggettivo di licenziamento non può sindacare la scelta dei criteri di
gestione dell’azienda, ma deve incentrarsi sulla verifica dell’effettiva sussistenza
del motivo addotto dal datore di lavoro, in ordine al quale lo stesso ha
l’onere di provare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l’impossibilità
di una differente collocazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle
precedentemente svolte.
Per
la Suprema Corte una simile prova non può però essere intesa in modo
rigido, presupponendo una collaborazione del lavoratore per l’accertamento di
un suo possibile repechage attraverso l’allegazione
dell’esistenza di altri posti di lavoro nei quali poteva essere utilmente ricollocato. Solo in presenza
di tale allegazione il datore di lavoro avrà l’onere di provare la non
utilizzabilità del dipendente nei posti predetti.
La
Cassazione si è infine soffermata sulla richiesta di risarcimento del danno
avanzata dal lavoratore, sostenendo che nessun addebito possa essere avanzato
al datore di lavoro in merito all’aggravamento delle condizioni di salute del
dipendente.
A
questo proposito, gli ermellini hanno ribadito quanto correttamente affermato dalla
Corte di Appello che aveva imputato il peggioramento dello stato di salute del
lavoratore all’attività extralavorativa di allenatore di squadre di calcio di
III categoria, che, incentrata sul continuo movimento delle gambe era stata
ritenuta maggiormente usurante rispetto alle mansioni svolte in ambito
lavorativo che richiedevano, invece, l’azionamento di una pedaliera con una resistenza
ridotta.
Valerio
Pollastrini
(1)
–
Corte di Cassazione, Sentenza n. 6552 del 18/03/2009;
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