Nella
sentenza n.26519 del 27 novembre 2013 la Corte di Cassazione ha ritenuto
corretto il comportamento di un lavoratore che, in seguito ad una sentenza che
ne aveva riconosciuto il diritto ad essere reintegrato in azienda dopo un
licenziamento illegittimo, si era
rifiutato di rientrare in servizio fino a quando il datore di lavoro non gli avesse
comunicato alcuni chiarimenti sulla propria posizione lavorativa ed, in
particolare, sulle mansioni nelle quali sarebbe stato ricollocato.
Al
termine di un precedente iter giudiziario ad un dipendente della Rete
Ferroviaria Italiana s.p.a., licenziato illegittimamente, era stato
riconosciuto il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro.
Il
lavoratore aveva però rifiutato l’invito del datore di lavoro a riprendere il
servizio perché, nonostante una richiesta formale, non aveva ricevuto alcuna indicazione
sulle condizioni lavorative nelle quali sarebbe stato reintegrato.
In
riforma della sentenza del Tribunale di
Ascoli Piceno, la Corte di Appello di Ancona aveva accolto le richieste del
lavoratore, dichiarando il rapporto di lavoro non cessato in seguito al mancato
rientro in servizio, ed aveva condannato l’azienda al pagamento, oltre degli
accessori di legge, delle spese di lite del doppio grado di giudizio.
La
Corte di Appello di Ancona aveva attestato che nel corso di un incontro tra il
dipendente ed un funzionario dell’azienda vi fosse stato un effettivo invito a riprendere
servizio. Tuttavia, la successiva inattività del lavoratore non poteva essere
addebitata ad un rifiuto espresso dello stesso per fatti concludenti, avendo
egli richiesto preventive specificazioni e manifestato la volontà di attendere,
prima della reintegra, una comunicazione scritta del datore di lavoro a
proposito delle future condizioni lavorative.
Di
conseguenza il giudice di Appello aveva ritenuto l’azienda inadempiente all’obbligo
di reintegrazione, fatto che aveva reso irrilevante il successivo comportamento
del lavoratore, dal momento che la mancata risposta della richiesta di specificazioni
aveva costituito la mancata attuazione dell’obbligo di reintegrazione.
In
seguito alla pronuncia di secondo grado, Rete Ferroviaria Italiana s.p.a aveva
ricorso per cassazione, lamentando che la Corte di merito aveva fondato la
propria decisione sull’assunto che l’incontro con il dirigente aziendale non
avesse comportato un’effettiva reintegra, sicché doveva considerarsi irrilevante
la circostanza che il lavoratore, dopo l’avvenuto “invito alla reintegra”, non
si fosse presentato sul luogo di lavoro, lasciando trascorrere il termine di
trenta giorni di cui all’art. 18 St. lav.
L’azienda
rilevava, inoltre, che in base al richiamato art. 18 St. lav., a carico del
datore di lavoro sussiste unicamente l’obbligo di invitare il dipendente a
riprendere il lavoro, mentre il lavoratore ha l’onere di riprendere servizio
entro trenta giorni dal ricevimento dell’invito datoriale. Nella specie, invece, la Corte d’appello, pur riconoscendo
che l’azienda avesse adempiuto all’obbligo dell’invito, aveva tuttavia ritenuto, contraddittoriamente,
giustificato il comportamento del
lavoratore successivo all’incontro con il dirigente aziendale preposto,
nonostante fosse certo che il dipendente avesse lasciato decorrere il
suindicato termine di trenta giorni.
La pronuncia
della Cassazione
La
Suprema Corte ha ritenuto infondate le doglianze dell’azienda, ricordando,
preliminarmente, il consolidato indirizzo giurisprudenziale (1) in base al
quale il termine di trenta giorni dalla ricezione dell’invito del datore di
lavoro – entro il quale il lavoratore, a norma dell’art. 18 della legge 20
maggio 1970 n. 300, deve riprendere servizio, dopo avere ottenuto la
reintegrazione nel posto di lavoro, se intende evitare la risoluzione del
rapporto – è stabilito nell’interesse del lavoratore in quanto, tenendo conto
delle difficoltà che egli potrebbe incontrare qualora gli fosse stata imposta
l’immediata ripresa del servizio, gli concede uno spatium deliberando sul
comportamento da seguire.
Ne
consegue che la risoluzione del rapporto di lavoro, prevista dall’art. 18 della
legge n. 300 del 1970 per l’ipotesi in cui il lavoratore illegittimamente
licenziato non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dal ricevimento del
corrispondente invito del datore di lavoro, presuppone l’accertamento della
sufficiente specificità dell’invito predetto, non essendo sufficiente la
manifestazione di una generica disponibilità del datore di lavoro e dare
esecuzione al provvedimento di reintegrazione (2).
Per
la Suprema Corte è necessario, pur senza forme solenni, un invito concreto e specifico a rientrare in
azienda (3), nel luogo e
nelle mansioni originarie (4) ovvero in
altre, se ricorrano comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive (5).
In
base ai principi sopra enunciati la specificità del contenuto dell’invito
datoriale si collega alla funzione del termine per la ripresa del servizio di
cui all’art. 18 St. lav., che si sostanzia nel consentire al lavoratore di
decidere con agio il comportamento da tenere, avendo ben presenti tutti gli
elementi propri della posizione lavorativa offertagli, dato il suo diritto a
rientrare nel luogo e nelle mansioni originarie e di potere, eventualmente,
essere adibito a mansioni diverse solo in caso di ricorrenza di comprovate
ragioni tecniche, organizzative e produttive.
Per
quanto riguarda il caso di specie, il lavoratore, durante l’incontro con il
referente aziendale, aveva richiesto specificazioni sulla posizione lavorativa
che avrebbe ricoperto in seguito alla reintegra e, non avendo ottenuto risposte
al riguardo, ha manifestato l’ intenzione di voler attendere la comunicazione
scritta e di volerne verificare il contenuto con il proprio legale.
Prima
della scadenza del termine, il legale del lavoratore aveva inviato al datore di
lavoro una lettera nella quale aveva formalizzato la suddetta richiesta di
chiarimenti, rimasta però inevasa.
Di
conseguenza, la Corte di Appello, a detta della Cassazione, aveva correttamente
ritenuto che l’azienda avesse tenuto un comportamento non conforme all’art. 18
St. lav., dal momento che aveva privato il lavoratore delle condizioni
necessarie per effettuare la propria scelta con cognizione di causa ed,
inoltre, aveva del tutto ignorato la lettera del legale del lavoratore, che,
invece, doveva essere considerata come un elemento del tutto idoneo ad
escludere qualsiasi comportamento inerte dell’interessato.
Dunque,
la richiesta dei dovuti chiarimenti in ordine alla posizione lavorativa offerta
in seguito ad un invito datoriale privo di specificità (quale è quello in
oggetto) è da considerarsi efficace – al fine di escludere l’inerzia del
lavoratore – anche se effettuata dal
legale del lavoratore stesso.
Sulla
base di tali considerazioni la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso dell’azienda
ed ha condannato la società al pagamento delle spese del giudizio di
legittimità, liquidate in 100,00 € per esborsi più 3000,00 € per compensi
professionali, oltre accessori come per legge.
(1)
-
vedi, per tutte: Cass. 11 maggio 1982, n. 2952;
(2)
-
vedi, fra le tante: Cass. 24 marzo 1987, n. 2857; Cass. 20 febbraio 1988, n.
1826; molte altre conformi, anche Cass. 29 luglio 1998, n. 7448;
(3)
-
Cass. 20 ottobre 1987 n. 7733, 13 gennaio 1993 n. 314, 19 giugno 1993 n. 6837;
(4)
-
Cass. 29 maggio 1995 n. 5993;
(5)
-
Cass. 29 luglio 1998, n. 7448;
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