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martedì 17 dicembre 2013

Nella comunicazione di reintegro devono essere specificate le mansioni nelle quali il lavoratore verrà adibito


Nella sentenza n.26519 del 27 novembre 2013 la Corte di Cassazione ha ritenuto corretto il comportamento di un lavoratore che, in seguito ad una sentenza che ne aveva riconosciuto il diritto ad essere reintegrato in azienda dopo un licenziamento illegittimo,  si era rifiutato di rientrare in servizio fino a quando il datore di lavoro non gli avesse comunicato alcuni chiarimenti sulla propria posizione lavorativa ed, in particolare, sulle mansioni nelle quali sarebbe stato ricollocato.

Al termine di un precedente iter giudiziario ad un dipendente della Rete Ferroviaria Italiana s.p.a., licenziato illegittimamente, era stato riconosciuto il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro.

Il lavoratore aveva però rifiutato l’invito del datore di lavoro a riprendere il servizio perché, nonostante una richiesta formale, non aveva ricevuto alcuna indicazione sulle condizioni lavorative nelle quali sarebbe stato reintegrato.

In riforma  della sentenza del Tribunale di Ascoli Piceno, la Corte di Appello di Ancona aveva accolto le richieste del lavoratore, dichiarando il rapporto di lavoro non cessato in seguito al mancato rientro in servizio, ed aveva condannato l’azienda al pagamento, oltre degli accessori di legge, delle spese di lite del doppio grado di giudizio.

La Corte di Appello di Ancona aveva attestato che nel corso di un incontro tra il dipendente ed un funzionario dell’azienda vi fosse stato un effettivo invito a riprendere servizio. Tuttavia, la successiva inattività del lavoratore non poteva essere addebitata ad un rifiuto espresso dello stesso per fatti concludenti, avendo egli richiesto preventive specificazioni e manifestato la volontà di attendere, prima della reintegra, una comunicazione scritta del datore di lavoro a proposito delle future condizioni lavorative.

Di conseguenza il giudice di Appello aveva ritenuto l’azienda inadempiente all’obbligo di reintegrazione, fatto che aveva reso irrilevante il successivo comportamento del lavoratore, dal momento che la mancata risposta della richiesta di specificazioni aveva costituito la mancata attuazione dell’obbligo di reintegrazione.

In seguito alla pronuncia di secondo grado, Rete Ferroviaria Italiana s.p.a aveva ricorso per cassazione, lamentando che la Corte di merito aveva fondato la propria decisione sull’assunto che l’incontro con il dirigente aziendale non avesse comportato un’effettiva reintegra, sicché doveva considerarsi irrilevante la circostanza che il lavoratore, dopo l’avvenuto “invito alla reintegra”, non si fosse presentato sul luogo di lavoro, lasciando trascorrere il termine di trenta giorni di cui all’art. 18 St. lav.

L’azienda rilevava, inoltre, che in base al richiamato art. 18 St. lav., a carico del datore di lavoro sussiste unicamente l’obbligo di invitare il dipendente a riprendere il lavoro, mentre il lavoratore ha l’onere di riprendere servizio entro trenta giorni dal ricevimento dell’invito datoriale.  Nella specie, invece, la Corte d’appello, pur riconoscendo che l’azienda avesse adempiuto all’obbligo dell’invito,  aveva tuttavia ritenuto, contraddittoriamente, giustificato  il comportamento del lavoratore successivo all’incontro con il dirigente aziendale preposto, nonostante fosse certo che il dipendente avesse lasciato decorrere il suindicato termine di trenta giorni.

La pronuncia della Cassazione
La Suprema Corte ha ritenuto infondate le doglianze dell’azienda, ricordando, preliminarmente, il consolidato indirizzo giurisprudenziale (1) in base al quale il termine di trenta giorni dalla ricezione dell’invito del datore di lavoro – entro il quale il lavoratore, a norma dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300, deve riprendere servizio, dopo avere ottenuto la reintegrazione nel posto di lavoro, se intende evitare la risoluzione del rapporto – è stabilito nell’interesse del lavoratore in quanto, tenendo conto delle difficoltà che egli potrebbe incontrare qualora gli fosse stata imposta l’immediata ripresa del servizio, gli concede uno spatium deliberando sul comportamento da seguire.

Ne consegue che la risoluzione del rapporto di lavoro, prevista dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970 per l’ipotesi in cui il lavoratore illegittimamente licenziato non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dal ricevimento del corrispondente invito del datore di lavoro, presuppone l’accertamento della sufficiente specificità dell’invito predetto, non essendo sufficiente la manifestazione di una generica disponibilità del datore di lavoro e dare esecuzione al provvedimento di reintegrazione (2).

Per la Suprema Corte è necessario, pur senza forme solenni,  un invito concreto e specifico a rientrare in azienda (3), nel luogo e nelle mansioni originarie (4)  ovvero in altre, se ricorrano comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive (5).

In base ai principi sopra enunciati la specificità del contenuto dell’invito datoriale si collega alla funzione del termine per la ripresa del servizio di cui all’art. 18 St. lav., che si sostanzia nel consentire al lavoratore di decidere con agio il comportamento da tenere, avendo ben presenti tutti gli elementi propri della posizione lavorativa offertagli, dato il suo diritto a rientrare nel luogo e nelle mansioni originarie e di potere, eventualmente, essere adibito a mansioni diverse solo in caso di ricorrenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.

Per quanto riguarda il caso di specie, il lavoratore, durante l’incontro con il referente aziendale, aveva richiesto specificazioni sulla posizione lavorativa che avrebbe ricoperto in seguito alla reintegra e, non avendo ottenuto risposte al riguardo, ha manifestato l’ intenzione di voler attendere la comunicazione scritta e di volerne verificare il contenuto con il proprio legale.

Prima della scadenza del termine, il legale del lavoratore aveva inviato al datore di lavoro una lettera nella quale aveva formalizzato la suddetta richiesta di chiarimenti, rimasta però inevasa.

Di conseguenza, la Corte di Appello, a detta della Cassazione, aveva correttamente ritenuto che l’azienda avesse tenuto un comportamento non conforme all’art. 18 St. lav., dal momento che aveva privato il lavoratore delle condizioni necessarie per effettuare la propria scelta con cognizione di causa ed, inoltre, aveva del tutto ignorato la lettera del legale del lavoratore, che, invece, doveva essere considerata come un elemento del tutto idoneo ad escludere qualsiasi comportamento inerte dell’interessato.

Dunque, la richiesta dei dovuti chiarimenti in ordine alla posizione lavorativa offerta in seguito ad un invito datoriale privo di specificità (quale è quello in oggetto) è da considerarsi efficace – al fine di escludere l’inerzia del lavoratore – anche se  effettuata dal legale del lavoratore stesso.

Sulla base di tali considerazioni la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso dell’azienda ed ha condannato la società al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in 100,00 € per esborsi più 3000,00 € per compensi professionali, oltre accessori come per legge.

 Valerio Pollastrini


(1)   - vedi, per tutte: Cass. 11 maggio 1982, n. 2952;

(2)   - vedi, fra le tante: Cass. 24 marzo 1987, n. 2857; Cass. 20 febbraio 1988, n. 1826; molte altre conformi, anche Cass. 29 luglio 1998, n. 7448;

(3)   - Cass. 20 ottobre 1987 n. 7733, 13 gennaio 1993 n. 314, 19 giugno 1993 n. 6837;

(4)   - Cass. 29 maggio 1995 n. 5993;

(5)   - Cass. 29 luglio 1998, n. 7448;

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