La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, ha ribadito
che quella di "giusta causa" di licenziamento e' una nozione legale e
non contrattuale. Il giudice, nel valutare se la condotta contestata al
lavoratore sia cosi' grave da legittimarne il recesso per colpa, non e'
vincolato alle previsioni dei contratti collettivi che individuano simili azioni
tra quelle punibili con il licenziamento.
La pronuncia in commento prende spunto dal
licenziamento per giusta causa irrogato dall'Esselunga ad un lavoratore colpevole
di essere venuto alle mani con un collega sul posto di lavoro.
Il lavoratore aveva impugnato il recesso, ritenendo
sproporzionata la sanzione del licenziamento rispetto alla gravita' delle sue
azioni e si era rivolto al giudice del lavoro che ne aveva accolto le richieste,
condannando l'azienda al pagamento del risarcimento del danno.
Il giudizio di primo grado era stato pero' ribaltato
dalla Corte di Appello, dopo che la stessa aveva accertato che l'articolo n.221
del Contratto Collettivo del settore del Terziario, applicato dal datore di
lavoro, punisce espressamente con il licenziamento per giusta causa il diverbio
seguito da vie di fatto nel caso in cui provochi turbativa al normale esercizio
dell'attivita' aziendale.
Il lavoratore era stato pertanto condannato a restituire all'azienda il
risarcimento ottenuto, oltre al pagamento delle spese processuali.
Giunta in Cassazione la questione e' stata
nuovamente rimessa in discussione.
La Corte ha chiarito che, in materia di
licenziamento disciplinare, la valutazione della congruita' della sanzione
espulsiva spetta unicamente al giudice, il quale deve stabilire se la gravita'
dei fatti contestati al lavoratore possa avere pregiudicato la prosecuzione del
rapporto di lavoro. Cio' indipendentemente dal fatto che la disciplina
collettiva configuri una simile condotta tra quelle passibili di giusta causa o
giustificato motivo di recesso.
Accogliendo l'istanza del lavoratore la Corte ha,
pertanto, rinviato la questione alla Corte di Appello.
Valerio Pollastrini
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