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martedì 3 marzo 2015

Vademecum sulla nuova disciplina dei licenziamenti

Il primo decreto attuativo del Jobs Act (1), nell’introdurre il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, ha riscritto il regime di tutela dei lavoratori nei casi di licenziamento illegittimo, discriminatorio, o privo degli estremi previsti per  il giustificato motivo oggettivo, soggettivo o la giusta causa.
La nuova disciplina, che entrerà in vigore il giorno successivo a quello di pubblicazione del decreto legislativo in Gazzetta Ufficiale, si segnala per aver ampliato notevolmente la tutela risarcitoria, con la conseguente riduzione delle ipotesi di reintegrazione nel posto di lavoro.

CAMPO DI APPLICAZIONE
Le nuove norme saranno applicabili ai licenziamenti irrogati a tutti i lavoratori subordinati del solo settore privato, ad eccezione dei dirigenti, assunti con contratto a tempo indeterminato successivamente all’entrata in vigore del decreto legislativo in commento o a quelli a tempo determinato il cui rapporto sia stato convertito a tempo indeterminato  dopo la data sopra indicata, nonché per gli apprendisti stabilizzati.
Tuttavia, il nuovo regime sarà applicabile anche ai licenziamenti dei dipendenti assunti precedentemente alle date suddette, qualora, in conseguenza di nuovi rapporti instaurati   successivamente all’entrata in vigore del decreto, il datore di lavoro integri il requisito occupazionale di cui all’art.18, commi 8 e 9, della Legge n.300 del 20 maggio 1970.
Stante il silenzio del legislatore, sembra possibile ritenere invariata l’attuale disciplina relativa alle residuali ipotesi di recesso ad nutum, quello, cioè, irrogato ai danni dei lavoratori domestici, di quelli in prova, nonché per i dipendenti che abbiano raggiunto l’età pensionabile.

LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO, NULLO E ORALE
L’obbligo di reintegrare in servizio il lavoratore estromesso dall’azienda continuerà ad operare nei seguenti caso di licenziamento:

-         nullo perché discriminatorio (2);

-         nullo perché riconducibile ad altre fattispecie di nullità espressamente previste dalla legge;

-         inefficace perché intimato oralmente;

-          con difetto di giustificazione per motivi consistenti nella disabilità fisica o psichica del lavoratore (3).

In tutte le ipotesi di recesso appena elencate, i lavoratori, oltre alla reintegrazione in servizio, avranno diritto anche ad un’indennità risarcitoria.
Per quanto riguarda l’applicazione della c.d. tutela reale, occorre precisare che, qualora il dipendente non si presenti in servizio entro i  30 giorni successivi all’invito formulatogli in tal senso dal datore di lavoro, il rapporto sarà considerato definitivamente risolto.
Inoltre, entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dall'invito del datore di lavoro a riprendere servizio, ove anteriore alla predetta comunicazione, il dipendente può optare, in sostituzione della reintegrazione, per una maggiore indennità risarcitoria, non assoggettata a contribuzione previdenziale, pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto.
Per quanto attiene al risarcimento per il danno, invece, il legislatore ha chiarito che detta indennità:

-         deve essere commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo compreso  tra il giorno del licenziamento e quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito nel periodo di estromissione per lo svolgimento di altre attività lavorative;

-          non potrà essere inferiore a cinque mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto;

-         è assoggettata alla contribuzione previdenziale ed assistenziale.

LICENZIAMENTO ECONOMICO E LICENZIAMENTO DISCIPLINARE
Il decreto legislativo in commento ha ridotto drasticamente l’ambito applicativo della tutela reale sia nei casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo che per quelli per giusta causa.
In relazione a queste fattispecie di recesso, infatti, il legislatore ha scelto di ampliare  la tutela obbligatoria, a beneficio, di fatto, delle imprese più grandi, onerate, secondo le modifiche, al pagamento di un’indennità risarcitoria di minore entità.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Nel caso in cui venga accertata la mancata sussistenza degli estremi del licenziamento per motivi economici, il giudice dichiarerà estinto il rapporto  alla data del recesso, condannando il datore di lavoro  al pagamento di un'indennità in favore del dipendente, pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio prestato.
In ogni caso, la predetta indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, dovrà essere ricompresa tra le quattro e le ventiquattro mensilità.

Licenziamento per giustificato motivo soggettivo e recesso per giusta causa - Nel ridisciplinare la tutela reale, il decreto legislativo  ha stabilito che, in via esclusiva, per le sole ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo e di licenziamento per giusta causa, laddove, nell’istruttoria, sia stata dimostrata l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, il giudice:

-         annulla il licenziamento;

-         condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro;

-         condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria;

-          condanna il datore di lavoro al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali in relazione alle giornate comprese tra la data del licenziamento e quella dell’effettiva reintegrazione, senza aggravio delle sanzioni previste per l’omessa contribuzione.

In simili casi,  l’indennità risarcitoria, deve essere commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, dedotto l’eventuale aliunde perceptum, e, in ogni caso,  non può essere superiore a dodici mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento determinata nel modo suddetto.
Anche in questo caso, il dipendente potrà chiedere al datore di lavoro, in alternativa alla reintegrazione, sempre entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dall'invito dell’azienda a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione, un'indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, non assoggettata a contribuzione previdenziale.
In relazione alle fattispecie di licenziamento ad oggetto, è necessario sottolineare come il legislatore abbia configurato il relativo impianto delle tutele in riferimento esclusivo al “fatto materiale”; il quale, svincolato da profili di gravità o di proporzionalità, non lascia posto né ad eventuali valutazioni o limitazioni contrattuali, né alla discrezionalità del giudice. Conseguentemente,  viene meno anche il giudizio sulla sproporzionalità del licenziamento, rispetto alla gravità del fatto contestato.
A ciò si aggiunga che, stante la disposta inversione dell’onere della prova, in simili casi, sarà il lavoratore a dover dimostrare l’insussistenza del fatto materiale.

LICENZIAMENTO VIZIATO NELLA FORMA O NELLA PROCEDURA
Il decreto legislativo ha disposto che  nel caso in cui la comunicazione del licenziamento sia priva dell’indicazione dei motivi che lo hanno determinato (4), oppure qualora il recesso sia stato intimato senza il preventivo espletamento della procedura disciplinare prevista dall’art.7 della Legge n. 300/1970, il giudice dovrà dichiarare estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento, con conseguente condanna del  datore di lavoro al pagamento di un’indennità pari, per ogni anno di servizio, ad  una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto.
Detta indennità, esente da contribuzione previdenziale, non può, comunque, essere inferiore a due e superiore a dodici mensilità, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza di un licenziamento nullo o innefficace o, altresì, fondato su un fatto materiale insussistente.

REVOCA DEL LICENZIAMENTO
Il legislatore ha regolamentato l’ipotesi della  revoca del licenziamento, stabilendo che, solo nel caso in cui la stessa risulti effettuata entro i quindici giorni successivi alla comunicazione con cui il dipendente abbia comunicato al datore di lavoro impugnazione del recesso, il rapporto dovrà considerarsi ripristinato senza soluzione di continuità.
In questo caso,  il lavoratore avrà diritto unicamente alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca.

NUOVA PROCEDURA DI CONCILIAZIONE
Il decreto legislativo ha escluso, per i nuovi licenziamenti, l’obbligo della preventiva richiesta obbligatoria di conciliazione presso la Direzione territoriale del lavoro (5), introducendo per tali fattispecie di recesso un nuovo tipo di  “Offerta di conciliazione”, volontaria.
In base a questa nuova procedura, il datore di lavoro avrà la possibilità, al fine di pervenire ad una risoluzione stragiudiziale della controversia, di offrire al dipendente licenziato un importo, esente sia da tassazione che da contribuzione  previdenziale, di ammontare pari ad una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura, comunque, non inferiore a due e non superiore a diciotto mensilità.
In  simili casi, la conciliazione risulterà perfezionata con la consegna di un assegno circolare  al lavoratore, effettuata, entro i termini d’impugnazione stragiudiziale del licenziamento, presso  una delle sedi di cui all’articolo 2113, comma 4, del codice civile, vale a dire dinnanzi al giudice istruttore, all’associazione sindacale alla quale il lavoratore aderisce o conferisce mandato, alle commissioni di conciliazione presso le DpL, oppure presso le Commissioni di conciliazione di cui all’art.82, comma 1, del D.Lgs. n.276/2003.
Nello specifico, la norma specifica che l’accettazione da parte del lavoratore comporta l’estinzione del rapporto alla data del licenziamento e, anche ove sia già stata proposta, la sua rinuncia alla impugnazione del recesso.
In ogni caso, resta ferma per le parti la possibilità di addivenire a ogni altra modalità di conciliazione prevista dalla legge.

LAVORATORI IMPIEGATI NEGLI APPALTI
Per una maggior tutela dei soggetti occupati negli appalti, ai fini della quantificazione di tutte le indennità risarcitorie di cui si è detto, il decreto legislativo ha previsto che l’anzianità di servizio del lavoratore passato alle dipendenze dell’impresa subentrante  va computata tenendo conto di tutto il periodo durante il quale il dipendente è stato impiegato nell’attività appaltata.

PICCOLE IMPRESE
Il decreto ha espressamente escluso l’applicazione dalla reintegrazione nei casi di licenziamento disciplinare illegittimo irrogato dalle  aziende con meno di 15 dipendenti.
Inoltre, per tali aziende, nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo  o di giusta causa, dichiarato illegittimo, anche per vizi formali o procedurali, le indennità risarcitorie devono essere dimezzate e, comunque, quantificate nel limite massimo di 6 mensilità.

ORGANIZZAZIONI DI TENDENZA
Un’altra novità di rilievo è quella che estende l’applicazione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, nel testo modificato dal decreto legislativo in commento, anche ai datori di lavoro non imprenditori esercenti, senza fine di lucro, attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto.

LICENZIAMENTI COLLETTIVI
Il legislatore ha previsto che le nuove disposizioni saranno applicabili anche ai licenziamenti collettivi.
Per questa fattispecie, tuttavia, il decreto legislativo ha configurato un trattamento diverso a seconda se il recesso coinvolga i lavoratori assunti prima dell’entrata in vigore delle nuove norme, o se, invece, riguardi dipendenti assunti successivamente.
In sostanza, ai lavoratori assunti prima dell’entrata in vigore del decreto delegato dovrà essere applicato il regime sanzionatorio pregresso, mentre  agli altri quello previsto dalla nuova normativa.
 
Valerio Pollastrini

1)      - Legge n.183/2014;
2)      – secondo quanto disposto dall'art.15 della Legge n.300 del 20 maggio 1970 e successive modificazioni;
3)      - ai sensi degli artt.4, comma 4, e 10, comma 3, della Legge n.68 del 12 marzo 1999;
4)      - di cui all’art.2, comma 2, della Legge n.604/1966;
5)      – di cui all’art.7 della Legge n.604/1966;

Il lavoratore in malattia prende parte ad eventi sportivi – Va irrogata la sola sanzione conservativa

Nell’Ordinanza del 2 febbraio 2015, il Tribunale di Milano ha affrontato l’annosa questione della compatibilità dello stato di malattia del lavoratore subordinato con l’eventuale svolgimento di attività ludico-ricreative.

Nel caso di specie, una lavoratrice aveva convenuto in giudizio l’azienda, chiedendo al Tribunale di accertare e dichiarare la nullità e/o illegittimità, ovvero di annullare, il licenziamento intimatole con lettera del 17/21 gennaio 2014, con le conseguenze risarcitorie previste dall’art.18 dello Statuto dei Lavoratori.

La donna, assunta dalla convenuta nel 1993 con la qualifica di Quadro, era stata licenziata a seguito della lettera di contestazione disciplinare del 4/10 gennaio 2014, nella quale il datore di lavoro, riferito di avere appreso che la predetta fosse solita partecipare abitualmente a maratone ed avesse praticato sport anche durante alcuni periodi di assenza per malattia, aveva addebitato alla ricorrente di avere "artatamente simulato (e lo sta facendo tuttora) uno stato di malattia, o per almeno ne ha dolosamente enfatizzato i sintomi, al fine di indurre in errore il medico di base e ottenere certificati idonei a dimostrare l'effettiva sussistenza e gravità della malattia, ovvero la sua incompatibilità con la prestazione lavorativa".

Nella stessa comunicazione,  inoltre, l’azienda aveva contestato alla ricorrente "di avere partecipato a due competizioni (15 aprile 2012, Maratona di Milano, 20 ottobre 2013 Laurens Triathlon Sprint Femminile) quando era assente per pretesa malattia, gareggiando durante la fascia di reperibilità mattutina, e di essersi allontanata dal suo domicilio, durante la fascia di reperibilità, anche in data 15 e 17 dicembre 2013".

Nel costituirsi in giudizio, la società convenuta aveva sostenuto che:

-         l’asserita malattia della ricorrente non era  incompatibile con l’espletamento della normale attività lavorativa, avendole consentito di svolgere attività fisicamente e mentalmente molto più impegnative;

-         la ricorrente aveva effettuato una pesante attività di allenamento prodromica alla partecipazione alla Maratona di Milano, ponendo a rischio e ritardando la sua guarigione.

Di contro, la dipendente aveva  eccepito l'infondatezza degli addebiti e la natura ritorsiva  del licenziamento, deducendo che il recesso le sarebbe stato irrogato a seguito del suo rifiuto  di rassegnare le dimissioni, richiestele dalla società nel dicembre 2011.

Investito della questione, il Tribunale milanese ha premesso l’infondatezza della doglianza relativa alla pretesa natura ritorsiva del licenziamento. La ricorrente,  infatti, aveva sostenuto che nel corso dell’incontro tenutosi il 5 dicembre 2013 i rappresentanti della datrice di lavoro le avevano richiesto di rassegnare le dimissioni e che, stante il suo rifiuto, la società aveva posto in essere ai suoi danni condotte vessatorie e di dequalificazione.

Sul punto, il Giudice ha osservato come, dallo stesso tenore delle allegazioni di cui al ricorso, appare evidente, però, che l’eventuale carattere ritorsivo non deve essere attribuito al licenziamento predetto, ma, al più, alle condotte di dequalificazione oggetto di altro giudizio pendente avanti al medesimo Tribunale.

Sia dalla lettera di licenziamento che dalla preventiva contestazione disciplinare emerge, infatti, che  il provvedimento espulsivo era stato disposto per sanzionare l’inesistente stato di malattia e le condotte tenute dalla lavoratrice durante il periodo di degenza.

Ciò chiarito, il Tribunale ha, tuttavia, ritenuto  il ricorso fondato con riferimento alla insussistenza della giusta causa del recesso.

A tale proposito, il Giudice ha ricordato che gli illeciti contestati alla lavoratrice erano due:

-         avere simulato la malattia;

-         essersi assentata dalla propria abitazione nelle fasce orarie di reperibilità.

Con riferimento al primo e più grave addebito, il CTU medico legale ha rassegnato, anche sulla base della relazione del medico psichiatra che lo ha coadiuvato nell’accertamento, le seguenti conclusioni:

-         “... è possibile ritenere compatibile il vissuto delle condotte così come riferite con lo stato di malattia dichiarato”;

-         non emergono estremi per ritenere che la dipendente abbia artatamente simulato uno stato di malattia, o che ne abbia dolosamente enfatizzato i sintomi, al fine di indurre in errore i medici che, a vario titolo si sono occupati della lavoratrice, col fine di ottenere certificazione atta a rilevare una condizione di inidoneità ovvero di incompatibilità con la prestazione lavorativa”.

In sostanza, l’espletata Consulenza Tecnica d’Ufficio ha confermato sia l’effettivo stato di malattia della ricorrente, che l’insussistenza delle supposte condotte simulatorie o di aggravamento dei sintomi e di ritardo di guarigione.

A proposito, invece, dell’altra condotta oggetto di contestazione, vale a dire l’assenza della lavoratrice dalla propria abitazione per partecipare a due eventi sportivi, il Tribunale ha rilevato come un simile comportamento configuri, ai sensi del C.C.N.L. di riferimento, una illecito disciplinare punito con la sola sanzione conservativa.

Alla luce delle considerazioni predette, pertanto, il Giudice adito ha concluso dichiarando l’illegittimità del licenziamento e, conseguentemente, la condanna della convenuta  a reintegrare la dipendente nel posto di lavoro precedentemente occupato o in altro equivalente, nonché alla corresponsione di una indennità commisurata alle retribuzioni globali di fatto dal licenziamento alla effettiva reintegrazione, in misura non superiore a 12 mensilità, oltre al versamento dei contributi previdenziale ed assistenziali per l'intero periodo.

Valerio Pollastrini

Rivisitato l’istituto del contratto a chiamata

Nello schema di decreto legislativo sul riordino delle tipologie contrattuali, il Governo ha predisposto un restyling della disciplina del lavoro intermittente, applicabile alla generalità delle aziende, ad eccezione dei rapporti alle dipendenze della Pubblica Amministrazione.

In attesa dell’approvazione definitiva, si riepiloga la nuova regolamentazione dell’istituto in commento, così come configurata dall’attuale formulazione del decreto.

Casi di ricorso al lavoro intermittente
Il contratto di lavoro intermittente può essere concluso per lo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo o intermittente, secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale, anche con riferimento alla possibilità di stipulare tale contratto in periodi predeterminati nell'arco della settimana, del mese o dell'anno. In mancanza di contratto collettivo, sarà il Ministero del Lavoro, mediante decreto non regolamentare, ad  individuare i casi di legittimo ricorso al rapporto a chiamata.
Tuttavia, il contratto di lavoro intermittente può  essere sempre concluso con soggetti con età superiore a 55 anni  o inferiore a 24 anni, fermo restando, in tale ultimo caso, che il rapporto deve esaurirsi entro il venticinquesimo anno di età.
Ad eccezione dei settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo, in tutte le ipotesi di legittima stipulazione, il contratto intermittente è ammesso, in relazione allo stesso rapporto,  per un periodo complessivamente non superiore a quattrocento giornate di effettivo lavoro, da computarsi nell'arco di tre anni solari. In caso di superamento del predetto periodo, il contratto a chiamata subirà    l’automatica conversione in rapporto di lavoro a tempo pieno ed indeterminato.

Ipotesi vietate
Il ricorso al lavoro intermittente non è ammesso nelle seguenti ipotesi:

a)     per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero;

b)     presso unità produttive nelle quali si sia proceduto, entro i sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi che abbiano riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto intermittente, ovvero presso unità produttive nelle quali sia operante una sospensione del lavoro o una riduzione dell'orario, in regime di cassa integrazione guadagni, che interessino dipendenti adibiti alle mansioni cui si riferisce il contratto a chiamata;

c)      da parte di datori di lavoro che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi, prevista dalla normativa sulla sicurezza.

Forma e comunicazioni
Il contratto di lavoro intermittente deve essere stipulato in forma scritta ai fini della prova dei seguenti elementi:

a)     durata ed ipotesi, oggettive o soggettive, predette, che consentono la stipulazione del contratto;

b)     luogo e modalità della disponibilità, eventualmente garantita dal lavoratore, e del relativo preavviso di chiamata, che, comunque, non può essere inferiore ad un giorno lavorativo;

c)      trattamento economico e normativo spettante al lavoratore per la prestazione eseguita e relativa indennità di disponibilità, ove prevista;

d)    forme e modalità con cui il datore di lavoro è legittimato a richiedere l'esecuzione della prestazione, nonché delle modalità di rilevazione della stessa;

e)      tempi e modalità di pagamento della retribuzione e della indennità di disponibilità;

f)       misure di sicurezza specifiche necessarie in relazione al tipo di attività dedotta nel contratto.

Il datore di lavoro è tenuto, inoltre, ad informare con cadenza annuale le rappresentanze sindacali aziendali o le rappresentanze sindacali unitarie, ove esistenti, sull'andamento del ricorso al contratto di lavoro intermittente.
Prima dell'inizio della prestazione lavorativa o di un ciclo integrato di prestazioni di durata non superiore a trenta giorni, il datore di lavoro è tenuto a comunicarne la durata con modalità semplificate alla Direzione territoriale del lavoro competente per territorio, mediante sms o posta elettronica. In caso di violazione degli obblighi suddetti verrà applicata la sanzione amministrativa da euro 400 ad euro 2.400, in relazione a ciascun dipendente per cui sia stata omessa la comunicazione. In simili casi, inoltre, non potrà applicarsi la procedura di diffida di cui all’art.13 del D.Lgs. n.124 del 23 aprile 2004.

Indennità di disponibilità
Solo nel caso in cui sia contrattualmente obbligato a rispondere alla chiamata del datore di lavoro, il dipendente avrà diritto ad una indennità mensile di disponibilità, divisibile in quote orarie in relazione al periodo di reperibilità.
La misura dell’indennità è fissata dai contratti collettivi, ma, comunque, non potrà essere inferiore all’importo previsto con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sentite le associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Per la suddetta indennità,  esclusa dal computo di ogni istituto di legge o di contratto collettivo, i contributi sono versati per il loro effettivo ammontare, anche in deroga alla vigente normativa in materia di minimale contributivo.
In caso di malattia o di altro evento che renda temporaneamente impossibile rispondere alla chiamata, il dipendente è tenuto ad informare tempestivamente il datore di lavoro, specificando la durata dell'impedimento. Nel periodo di temporanea indisponibilità non matura il diritto alla indennità di disponibilità. Ove il lavoratore non provveda all'adempimento di cui al periodo precedente, perde il diritto alla indennità di disponibilità per un periodo di quindici giorni, salva diversa previsione del contratto individuale.
Sempre a proposito di questa tipologia di contratto intermittente, occorre precisare, da ultimo, che il rifiuto ingiustificato di rispondere alla chiamata può costituire un motivo di licenziamento e comportare la restituzione della quota di indennità di disponibilità riferita al periodo successivo all'ingiustificato rifiuto.

Principio di non discriminazione
Il lavoratore intermittente non deve ricevere, per la prestazione effettivamente resa, un trattamento economico e normativo complessivamente meno favorevole rispetto al dipendente di pari livello, a parità di mansioni svolte.
Il trattamento economico, normativo e previdenziale del dipendente intermittente è riproporzionato in ragione della prestazione lavorativa effettivamente eseguita, in particolare per quanto riguarda l'importo della retribuzione globale e delle singole componenti di essa, nonché delle ferie e dei trattamenti per malattia, infortunio sul lavoro, malattia professionale, maternità, congedi parentali.

Computo del lavoratore intermittente
Ai fini dell’applicazione di qualsiasi disciplina di fonte legale o contrattuale per la quale sia rilevante il computo dei dipendenti, il lavoratore intermittente è conteggiato nell'organico dell'impresa in proporzione all'orario di lavoro effettivamente svolto nell'arco di ciascun semestre.

Valerio Pollastrini

domenica 1 marzo 2015

Jobs Act: la nuova disciplina delle mansioni

Modificando integralmente il testo dell’art.2103 del codice civile, lo schema di decreto legislativo sul riordino delle fattispecie contrattuali, approvato lo scorso 20 febbraio dal Consiglio dei Ministri, ha riscritto completamente la disciplina sulle mansioni.

Alla luce delle predette modifiche, si riporta  la nuova formulazione della norma codicistica, così come dovrebbe risultare dopo l’entrata in vigore del decreto.

Art.2103
Prestazione del lavoro - Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.
In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore.
Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni.
Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore possono essere previste da contratti collettivi, anche aziendali, stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Nelle ipotesi di cui al secondo e quarto comma, il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa.
Nelle sedi di cui all’articolo 2113, ultimo comma, o avanti alle commissioni di certificazione di cui all’articolo 76 del decreto legislativo n. 10 settembre 2003, n. 276, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita.
Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione diviene definitiva, salva diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi.
Il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.
Salvo che ricorrano le condizioni di cui al secondo e quarto comma e fermo quanto disposto al sesto comma, ogni patto contrario è nullo.

Sanatoria per la stabilizzazione di Co.co.pro e false Partite Iva

Nel predisporre la futura soppressione di gran parte delle collaborazioni coordinate e continuative, lo schema di decreto legislativo sul riordino delle fattispecie lavorative, approvato lo scorso 20 febbraio dal Consiglio dei Ministri nell’ambito del recepimento del c.d. Jobs Act, ha configurato una speciale sanatoria per i rapporti a progetto e le false Partite Iva.

Conversione in rapporto subordinato delle collaborazioni organizzate dal committente
A far data dal 1° gennaio 2016, la disciplina del lavoro  subordinato si applicherà anche ai rapporti di collaborazione che si concretino in prestazioni  esclusivamente personali, continuative, di contenuto ripetitivo e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro.

In ogni caso, restano salve:

a)     le collaborazioni per le quali gli accordi collettivi stipulati dalle confederazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedano discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore;

b)     le collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali sia necessaria l'iscrizione in appositi albi professionali;

c)      le attività prestate nell’esercizio della loro funzione dai componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e dai partecipanti a collegi e commissioni;

d)    le prestazioni di lavoro rese a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal C.O.N.I., come individuati e disciplinati dall’art.90 della Legge n.289 del 27 dicembre 2002.

Fino al 1° gennaio 2017, in attesa del riordino della disciplina del lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione, la prevista soppressione dei contratti di collaborazione non trova applicazione nell’ambito del Pubblico impiego.

Sanatoria in caso di stabilizzazione di Co.co.co, Co.co.pro e titolari di partita IVA
Al fine di promuovere la stabilizzazione dell'occupazione mediante il ricorso a contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, nonché di garantire il corretto utilizzo dei contratti di lavoro autonomo, nel periodo compreso fra l’entrata in vigore del presente decreto ed il 31 dicembre 2015, i datori di lavoro privati che procedano alla assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato di soggetti già parti di contratti di collaborazione coordinata e continuativa anche a progetto e di persone titolari di partita IVA, potranno beneficiare dell'estinzione delle violazioni previste dalle disposizioni in materia di obblighi contributivi, assicurativi e fiscali connessi alla eventuale erronea qualificazione del rapporto di lavoro pregresso, salve le violazioni già accertate prima dell’assunzione.

Nei casi predetti, tuttavia, la non punibilità sarà subordinata al rispetto delle due condizioni seguenti:

a)     i lavoratori interessati alle assunzioni sottoscrivano, con riferimento a tutte le possibili pretese riguardanti la qualificazione del pregresso rapporto di lavoro, atti transattivi dinnanzi al Giudice o presso la Commissione di conciliazione della Dpl;

b)     nei dodici mesi successivi alla stabilizzazione, i datori di lavoro non recedano dal rapporto di lavoro, salvo che per giusta causa, ovvero per giustificato motivo soggettivo.

Valerio Pollastrini

Jobs Act: la nuova disciplina del lavoro accessorio

Tra le novità inserite nello schema di decreto legislativo sul riordino delle fattispecie contrattuali, approvato lo scorso 20 febbraio dal Consiglio dei Ministri nell’ambito del recepimento del c.d. Jobs Act, si segnala in questa sede la sostanziale rivisitazione della disciplina del lavoro accessorio.

In attesa dell’entrata in vigore del decreto, si riportano i principali contenuti relativi alla fattispecie contrattuale in commento.

Definizione e campo di applicazione
Per prestazioni di lavoro accessorio si intendono le attività di natura subordinata o autonoma che non diano luogo, con riferimento alla totalità dei committenti, a compensi superiori a 7.000 euro nel corso di un anno civile, annualmente rivalutati sulla base della variazione dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e degli impiegati.

Fermo restando il limite complessivo di 7.000 euro, nei confronti dei committenti imprenditori o professionisti, le attività lavorative potranno essere svolte a favore di ciascun singolo committente per compensi non superiori a 2.000 euro, anch’essi rivalutati annualmente.

Le prestazioni di lavoro accessorio potranno essere rese, altresì, in tutti i settori produttivi, compresi gli enti locali,  nel limite complessivo di 3.000 euro di corrispettivo per anno civile, da percettori di prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito. In questo caso, l’INPS provvederà a sottrarre dalla contribuzione figurativa relativa alle prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito gli accrediti contributivi derivanti dalle prestazioni di lavoro accessorio.

Nel settore agricolo le disposizioni suddette saranno applicabili:

a)     alle attività lavorative di natura occasionale rese nell'ambito delle attività di carattere stagionale effettuate da pensionati e da giovani con meno di venticinque anni di età se regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso un istituto scolastico di qualsiasi ordine e grado, compatibilmente con gli impegni scolastici, ovvero in qualunque periodo dell'anno se regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso l'università;

b)     alle attività agricole svolte a favore di soggetti di cui all'art.34, comma 6, del D.P.R. n.633 del 26 ottobre 1972,  che non possono, tuttavia, essere svolte da soggetti iscritti l'anno precedente negli elenchi anagrafici dei lavoratori agricoli.

Il ricorso alle prestazioni di lavoro accessorio da parte di un committente pubblico sarà consentito nel rispetto dei vincoli previsti dalla vigente disciplina in materia di contenimento delle spese per il personale e, ove previsto, dal patto di stabilità interno.

Per quanto riguarda i cittadini stranieri, i compensi percepiti nell’ambito dei rapporti di lavoro accessorio saranno computati ai fini della determinazione del reddito necessario per il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno.

Il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio è vietato nell’ambito della esecuzione di appalti, fatte salve specifiche ipotesi individuate con decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, sentite le parti sociali, da adottarsi entro sei mesi dall’entrata in vigore del presente decreto.

In relazione all’applicabilità di questa fattispecie contrattuale alle Pubbliche Amministrazioni, lo schema di decreto legislativo ha fatto salvo quanto disposto dall’art.36 del D.Lgs. n.165 del 30 marzo 2001, sul ricorso al lavoro flessibile nel Pubblico impiego.

Disciplina del lavoro accessorio
Per ricorrere alle prestazioni di lavoro accessorio, i committenti imprenditori o professionisti, acquisteranno, esclusivamente attraverso modalità telematiche, uno o più carnet di buoni orari, numerati progressivamente e datati, il cui valore nominale sarà fissato con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, tenendo conto della media delle retribuzioni rilevate per le diverse attività lavorative e delle risultanze istruttorie del confronto con le parti sociali. I committenti non imprenditori o professionisti potranno comunque acquistare i buoni anche presso le rivendite autorizzate.

In attesa della emanazione del decreto ministeriale suddetto  (fatte salve le prestazioni rese nel settore agricolo), il valore nominale del buono orario è fissato in 10 euro, mentre  nel settore agricolo è pari all’importo della retribuzione oraria delle prestazioni di natura subordinata individuata dal contratto collettivo stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

I committenti imprenditori o professionisti che ricorrono a prestazioni occasionali di tipo accessorio sono tenuti, prima dell’inizio della prestazione, a comunicare alla Direzione territoriale del lavoro competente, attraverso modalità telematiche, ivi compresi sms o posta elettronica, i dati anagrafici e il codice fiscale del lavoratore, indicando, altresì, il luogo della prestazione con riferimento ad un arco temporale non superiore ai trenta giorni successivi.

Il prestatore di lavoro accessorio percepirà il proprio compenso dal Concessionario (in via transitoria, l’Inps o le Agenzie per il Lavoro), successivamente all’accreditamento dei buoni da parte del beneficiario della sua prestazione. Il compenso è esente da qualsiasi imposizione fiscale e non incide sullo stato di disoccupato o inoccupato del prestatore di lavoro accessorio.

Il Concessionario provvederà al pagamento delle spettanze, effettuando, altresì, il versamento per suo conto dei contributi per fini previdenziali  alla Gestione Separata dell’INPS in misura pari al 13 per cento del valore nominale del buono, e per fini assicurativi contro gli infortuni all’INAIL, in misura pari al 7 per cento del valore nominale del buono, e tratterrà l’importo autorizzato dal più volte richiamato decreto ministeriale a titolo di rimborso spese.

In considerazione delle particolari ed oggettive condizioni sociali di specifiche categorie di soggetti correlate allo stato di disabilità, di detenzione, di tossicodipendenza o di fruizione di ammortizzatori sociali per i quali è prevista una contribuzione figurativa, utilizzati nell’ambito di progetti promossi dalle Amministrazioni Pubbliche, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, con proprio decreto, potrà stabilire specifiche condizioni, modalità e importi dei buoni orari.

Valerio Pollastrini

Primi dubbi sull’abrogazione delle associazioni in partecipazione

Lo schema di decreto legislativo sul riordino delle discipline contrattuali, approvato lo scorso 20 febbraio dal Consiglio dei Ministri, ha previsto, tra l’altro, la soppressione delle associazioni in partecipazione con apporto di lavoro.

La norma in commento, disponendo l’abrogazione del secondo e terzo comma dell’art.2549 del codice civile, di fatto,  ha vietato la stipulazione di questo tipo di associazione in partecipazione anche ai soggetti legati all’imprenditore da rapporto coniugale, di parentela entro il terzo grado o di affinità entro il secondo, in relazione ai quali la disciplina codicistica aveva ammesso il superamento del limite massimo di 3 contratti  all’interno della stessa azienda.

Se lo schema del decreto legislativo appare chiaro nel sancire la definitiva abrogazione della fattispecie contrattuale in commento, la formulazione letterale della norma, tuttavia, lascia spazio a numerosi dubbi in merito alla decorrenza.

Il terzo comma dell’art.50, infatti, precisa solamente che “i contratti di associazione in partecipazione nei quali l’apporto dell’associato consiste anche in una prestazione di lavoro sono fatti salvi fino alla loro cessazione”.

Nel caso in cui le parti non avessero prefissato una scadenza determinata, dunque, non è chiaro fino a quando il rapporto associativo possa considerarsi valido.

Dal momento che la finalità della norma è quella di sopprimere le forme di lavoro precario, sembrerebbe potersi individuare, ma è solo un’ipotesi, una scadenza legale nel 31 dicembre 2015, data in cui è stata sancita, nella medesima ottica, la definitiva abrogazione dei contratti a progetto. Se così fosse, però, non si vede la ragione per cui il legislatore non lo abbia esplicitamente precisato. In proposito, pertanto, giova ricordare, in via prudenziale, l’antico brocardo secondo il quale “ciò che la legge non dice, la legge non vuole”.

Valerio Pollastrini

Un congedo straordinario per le donne vittime di violenza di genere

Lo schema di decreto legislativo finalizzato, nell’ambito del recepimento del Jobs Act, ad una migliore conciliazione tra tempi di lavoro e vita privata, ha introdotto alcune misure di sostegno in favore  delle lavoratrici vittime di violenza di genere.

Nello specifico, l’articolo 23 ha istituito il  diritto per  dipendenti e  parasubordinate, inserite nei percorsi di protezione relativi alla violenza di genere, debitamente certificati dai servizi sociali del Comune di residenza o dai Centri antiviolenza o dalle Case rifugio (1), ad un congedo massimo di tre mesi  per motivi connessi al suddetto percorso di protezione.

Salvo i casi di oggettiva impossibilità, le donne che avessero la necessità di astenersi dal servizio dovranno inoltrare al datore di lavoro, nel termine di preavviso non inferiore a sette giorni, una preventiva comunicazione corredata dalla relativa certificazione.

L’intero periodo di congedo, durante il quale la lavoratrice riceverà l’intera retribuzione, sarà computato a tutti gli effetti nell’anzianità di servizio, nonché ai fini della maturazione delle ferie, della tredicesima mensilità e del trattamento di fine rapporto.

Il congedo in commento potrà essere usufruito, su base oraria o giornaliera, nell’arco temporale di tre anni, nel rispetto di quanto previsto da successivi accordi collettivi nazionali. In caso di mancata regolamentazione da parte della contrattazione collettiva, la dipendente potrà scegliere tra le due opzioni suddette.

La fruizione su base oraria, tuttavia, sarà consentita in misura pari alla metà dell’orario medio giornaliero del periodo di paga quadrisettimanale o mensile immediatamente precedente a quello nel corso del quale abbia avuto inizio il congedo.

Le vittime di violenze di genere, inoltre, avranno diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, verticale od orizzontale.

Su successiva richiesta della lavoratrice, infine, l’azienda sarà obbligato a convertire nuovamente in full-time il rapporto precedentemente trasformato in part-time.

Valerio Pollastrini


1)      - di cui all’art.5-bis del D.L. n.93 del 14 agosto 2013,  convertito, con modificazioni, dalla Legge n.119 del 15 ottobre 2013;

L’accertamento dello straordinario degli autisti

Nella sentenza n.1245 del 23 gennaio 2015, la Corte di Cassazione ha ribadito che gli straordinari dell’autotrasportatore possono essere accertati anche in base alle risultanze dei dischi cronotachigrafi, a patto che gli stessi siano integrati, nel corso del giudizio, da ulteriori elementi, quand’anche di carattere indiziario o presuntivo, quali, ad esempio,  le deposizioni dei testi che confermino la corrispondenza dei viaggi registrati con quelli realmente effettuati dal lavoratore.

Valerio Pollastrini

Cittadini stranieri: è illegittimo subordinare l’assistenza al possesso della carta di soggiorno

Nella sentenza n.22 del 27 febbraio 2015 la Corte Costituzionale ha stabilito che è discriminatorio richiedere agli extracomunitari il possesso della carta di soggiorno quale condizione necessaria per il diritto ad  una prestazione assistenziale come l’indennità di accompagnamento riconosciuta al c.d. cieco civile ventesimista, ossia parziale.

Nella pronuncia in commento, la Consulta, chiamata a dirimere la questione di legittimità sollevata dalla Corte di Appello di Bologna in merito all’art.80 della Legge n.388/2000, ha sottolineato che sarebbe “arduo giustificare, nella dimensione costituzionale della convivenza solidale, una condizione ostativa - inevitabilmente discriminatoria - che subordini al possesso della carta di soggiorno la fruizione di benefici intrinsecamente raccordati alla necessità di assicurare a ciascuna persona, nella più ampia e compatibile misura, condizioni minime di vita e di salute”.

Valerio Pollastrini