Nel caso di specie, un autista aveva assunto un
atteggiamento ostile e minaccioso nei confronti dell’amministratore delegato
dell’azienda, pronunciando frasi del tenore di "io ti distruggo" e "io
ti spacco il fondoschiena".
Investita della questione, la Suprema Corte ha preliminarmente
ricordato come la nozione di “giusta causa” di licenziamento debba essere
specificata in sede interpretativa, tenendo conto di fattori esterni, inerenti
alla coscienza generale, nonché dei principi delineati dalla normativa di
riferimento.
Ciò detto, gli ermellini hanno precisato che il giudice
dell'appello, nel ritenere legittimo il recesso, avesse correttamente applicato i principi
suddetti. Da qui ne consegue la validità del licenziamento.
Valerio Pollastrini
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Corte di Cassazione, Sentenza
n.1595 del 28 gennaio 2016
Svolgimento del
processo
G.P. adiva il
Tribunale di Ragusa e premetteva di aver lavorato alle dipendenze della s.r.l.
F.lli A. a partire dal 12/1/2004 con qualifica di autista di III livello del
C.C.N.L. del settore edilizia ed orario di 45 ore settimanali e di essere stato
licenziato con lettera del 17 maggio 2006, a seguito di contestazione
disciplinare con la quale gli si addebitava di aver assunto un atteggiamento
ostile e minaccioso nei confronti dell'amministratore della società. Assumeva
che il recesso era illegittimo per assenza di giusta causa e che inoltre egli
era rimasto creditore di somme a titolo di compenso per lavoro straordinario,
indennità di maneggio denaro e differenza contrattuale. Chiedeva pertanto
dichiararsi nullo, illegittimo od inefficace il licenziamento e condannarsi la
società al risarcimento del danno materiale e morale, da quantificarsi in via
equitativa, oltre al pagamento delle ulteriori spettanze rivendicate ed
accessori.
Il Tribunale annullava
il licenziamento, ritenendo difettare la proporzione tra addebito e sanzione, e
condannava la società al risarcimento del danno pari a tre mensilità di
retribuzione, oltre accessori. Rigettava le altre domande.
La Corte d'appello di
Catania con sentenza n. 1432/2012 depositata il 4 gennaio 2013, giudicando sugli
appelli proposti da entrambe le parti, in riforma della sentenza impugnata
rigettava tutte le domande proposte da G.P. e lo condannava a pagare le spese
di entrambi i gradi di giudizio, liquidate in € 4.500, 00 per il primo grado e
€ 3.960,00 per il secondo, oltre IVA e CPA.
In merito al
licenziamento, la Corte territoriale argomentava che dalle testimonianze
escusse era risultato confermato che il P. in data 4 maggio 2006 avesse avuto
una discussione con l’amministratore della società, durante la quale aveva
proferito frasi offensive e minacciose (fra cui "io ti distruggo",
"ti spacco il fondoschiena"). Riteneva che la condotta integrasse gli
estremi dell'insubordinazione e dell'offesa al datore di lavoro e come tale
apparisse idonea a minare l'elemento fiduciario, costituendo grave negazione
del dovere di diligenza di cui ai commi 1 e 2 dell'art. 2104 del codice civile,
anche tenuto conto del contesto nel quale era maturato l'episodio, preceduto
dalle legittime rimostranze dell'azienda per non avere il dipendente
prontamente informato la direzione aziendale di un asserito infortunio sul
lavoro. Aggiungeva che la condotta contestata era espressamente contemplata
dall'articolo 100 comma 3 lettera a) del contratto collettivo di categoria, che
prevedeva l’insubordinazione e le offese verso i superiori quale mancanza
meritevole della sanzione disciplinare del licenziamento in tronco.
In merito al compenso
per lavoro straordinario, la Corte argomentava che, a fronte della prova
fornita dal datore di lavoro di avere retribuito il lavoro straordinario tutti
i mesi mediante compensi fuori busta (ad eccezione di un periodo di assenza per
malattia e di un periodo di sospensione cautelare dal servizio), il P., che non
aveva riferito tale circostanza, neppure aveva fornito la prova di aver svolto
lavoro straordinario in misura superiore a quella retribuita, né erano
sufficienti i pochi dischi cronotachigrafi agli atti. Inoltre nessuno dei testi
escussi aveva lavorato a fianco del ricorrente nell'arco temporale fra le ore 7
e le 17 e quindi, tenendo conto della giurisprudenza in tema di attività
discontinue, non risultava che fosse stato effettivamente superato il limite di
40 ore settimanali fissato convenzionalmente.
Per la cassazione
della sentenza G.P. ha proposto ricorso, affidato a cinque motivi, cui ha
resistito con controricorso la F.lli A. s.r.l., che ha depositato anche memoria
ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
1. Come primo motivo
di ricorso, il P. deduce violazione e falsa applicazione dell'articolo 116
c.p.c. degli articoli 246 e 252 c.p.c. nonché omessa, contraddittoria e
illogica motivazione e lamenta che la Corte d’appello abbia fondato la propria
ricostruzione dei fatti esclusivamente sulle testimonianze rese dal fratello e
dal figlio dell'amministratore della società, l’uno socio e l’altro dipendente
della s.r.l. F.lli A., senza considerarne l'incapacità e l'inattendibilità.
2. Come secondo
motivo, lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c. ed il vizio
di motivazione nei quali sarebbe incorsa la Corte di merito, laddove ha
ravvisato una violazione dell’elemento fiduciario nella condotta addebitata -
peraltro erroneamente ricostruita - senza tener conto degli elementi concreti
inerenti la natura del singolo rapporto di lavoro, la mansione affidata ed il
grado di affidabilità richiesto al lavoratore; nel caso, essendo il lavoratore
inquadrato come autista di III livello, l’elemento fiduciario era attenuato.
3. Come terzo motivo,
deduce la violazione del principio di proporzionalità della sanzione
disciplinare, la violazione e falsa applicazione dell'art. 7 della L. n. 300
del 1970 ed il vizio di motivazione. Lamenta che la Corte siciliana non abbia
motivato in ordine alla presunta correttezza del procedimento disciplinare,
nonché, sotto il profilo sostanziale, abbia violato il principio di
proporzionalità del provvedimento, trascurando il clima di rapporti difficili
nel quale la vicenda si era inserita.
4. Come quarto motivo,
deduce la violazione e falsa applicazione dell'articolo 116 c.p.c. e
dell'articolo 2697 c.c. ed il vizio di motivazione e lamenta che la Corte
d’appello abbia rigettato le domande proposte per ottenere la corresponsione
dei crediti maturati a titolo di lavoro straordinario ed altre indennità,
considerato che le ricevute che ha valorizzato in motivazione erano prive di
qualsiasi riferimento idoneo a dimostrare a quali ore di lavoro straordinario
si riferissero, riportando solo la data dell’ asserito pagamento. Lamenta
inoltre che la Corte abbia ritenuto che, trattandosi di attività lavorativa
discontinua, sarebbe stato onere del ricorrente provare la consistenza del
lavoro svolto, non potendo attribuirsi esaustiva rilevanza al fatto che altri
dipendenti vedessero il ricorrente iniziare la giornata lavorativa alle ore 7 e
fare rientro alle 17, considerato che anche in caso di lavoro discontinuo egli
era comunque obbligato a tenere costantemente disponibile la propria forza
lavoro per ogni richiesta o necessità; la soluzione della Corte finirebbe anche
per determinare una lesione del diritto costituzionalmente garantito ad una
retribuzione sufficiente ed adeguata alla quantità e qualità del lavoro svolto,
ed inoltre apparirebbe riduttiva la valutazione dei dischetti cronotachigrafi
in quanto nessun onere di allegazione incombeva sul lavoratore che non ne era
in possesso.
5. Come quinto motivo,
deduce violazione e falsa applicazione dell'articolo 91 c.p.c., violazione e
falsa applicazione del Dm 140 del 2012, nonché omessa, contraddittoria e
illogica motivazione, laddove la Corte territoriale ha liquidato le spese del
processo senza tener conto della complessità della materia del contendere, ma
soprattutto non esplicitando nemmeno in che modo aveva applicato i criteri cui
diceva di doversi riferire, giungendo ad una condanna onerosissima per il
lavoratore (oltre € 10.000 considerando Iva e c.p.a.).
6. Il ricorso non è
fondato.
Quanto al primo
motivo, non sussisteva in primo luogo alcuna incapacità a testimoniare in capo
al socio della s.r.l. F.lli A. in virtù del legame con la società. E difatti,
da tempo questa Corte ha chiarito che ben possono essere assunti come
testimoni, in una causa tra una società di capitali - che ha una personalità
distinta da quella dei soci - ed un terzo/ i soci della società stessa, che non
sono legittimati ad intervenire in giudizio (Cass. n. 2393 del 29/08/1963).
6.1. Non sussiste
inoltre con riguardo alle deposizioni rese dai parenti o dal coniuge di una
delle parti alcun principio di necessaria inattendibilità connessa al vincolo
di parentela o coniugale, siccome privo di riscontri nell'attuale ordinamento,
considerato che, venuto meno il divieto di testimoniare previsto dall'art. 247
cod. proc. civ. per effetto della sentenza della Corte Cost. n. 248 del 1974,
l'attendibilità del teste legato da uno dei predetti vincoli non può essere
esclusa aprioristicamente, in difetto di ulteriori elementi in base ai quali il
giudice del merito reputi inficiarne la credibilità, per la sola circostanza
dell'esistenza dei detti vincoli con le parti (ex plurimis, Cass. n. 1109 del
20/01/2006 n. 12365 del 24/05/2006, n. 17630 del 28/07/2010). Soluzione che a
maggior ragione deve valere per i dipendenti di una delle parti.
6.2. Ciò posto, spetta
in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del
proprio convincimento, di controllarne l'attendibilità e la concludenza e di
scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute
maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi (così
da ultimo tra le tante Cass. n. 22065 del 2014, Cass. n. 27197 del 2011),
sicché il motivo si traduce nella richiesta di una nuova valutazione delle
risultanze di causa, inammissibile in questa sede, considerato che il ricorso
per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di
riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di
controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza
logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, tanto più
nei limiti stringenti imposti ratione temporis dalla formulazione dell’art. 360
comma 1 n. 5 c.p.c. introdotta dall’art. 54 del D.L. 22 giugno 2012, n. 83,
convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, che prevede come
quinto motivo di ricorso per cassazione l’ "omesso esame circa un fatto
decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti".
7. Neppure il secondo
e terzo motivo, che possono essere trattati congiuntamente in quanto connessi,
sono fondati.
7.1. In primo luogo,
la censura appare inammissibile laddove non viene specificato se sia stato
proposto nel giudizio d’appello un motivo di gravame relativo alla correttezza
del procedimento disciplinare che la Corte non avrebbe esaminato.
7.2. Inoltre, non
viene censurata la ratio decidendi secondo la quale la proporzionalità della
sanzione risulterebbe dalla valutazione che ne hanno fatto le parti collettive
nella previsione dell’art. 100 comma 3 lettera a) del CCNL, che sanziona
l’insubordinazione o le offese verso i superiori con il licenziamento in
tronco, sicché comunque anche accogliendo i due motivi, il risultato decisorio
resterebbe immutato.
7.3. In merito in
generale all’ idoneità dell’inadempimento a costituire giusta causa di
risoluzione del rapporto, occorre poi ribadire che la giusta causa di
licenziamento, così come il giustificato motivo, costituiscono una nozione che
la legge - allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da
disciplinare, articolata e mutevole nel tempo - configura con disposizioni
(ascrivibili alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato
contenuto, delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in
sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi
alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente
richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura di norma
giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità
come violazione di legge. L’ accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto
dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le
sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa o
giustificato motivo di licenziamento, è quindi sindacabile in cassazione, a
condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e
meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di
incoerenza rispetto agli "standards", conformi ai valori dell'
ordinamento, esistenti nella realtà sociale (Cass. n. 8367 del 2014, Cass. n.
5095 del 2011).
7.4. Nel caso in
esame, la censura non evidenzia quali sarebbero gli "standards" dai
quali la Corte d’appello si sarebbe discostata, ma pare piuttosto finalizzata a
rivalutare le risultanze istruttorie in ordine ai fatti contestati, per
ridimensionarne la rilevanza sul piano disciplinare rispetto a quanto ritenuto
nella sentenza di merito.
7.5. In virtù di
costante giurisprudenza di questa S.C., peraltro, per giustificare un
licenziamento disciplinare i fatti addebitati devono rivestire il carattere di
grave violazione degli obblighi del rapporto di lavoro, tale da lederne irrimediabilmente
l'elemento fiduciario; la relativa valutazione deve essere operata con
riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del
singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto
dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato,
alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro
verificarsi, ai motivi e all'intensità dell'elemento intenzionale o di quello
colposo (cfr., per tutte, Cass. n. 25608/2014 e 7394/2000).
7.6. La Corte
territoriale ha fatto corretta applicazione di tali principi, in quanto la
motivazione ha esaminato più aspetti, riguardando sia la condotta minacciosa ed
ingiuriosa in sé, che il contesto dei rapporti nei quali si è inserita, che la
sua valutazione nel codice disciplinare.
In tal senso, quindi,
la motivazione non è censurabile sotto l’aspetto della violazione di legge, né
del vizio di motivazione.
8. Il quarto motivo è
infondato.
La Corte d’appello ha
applicato il corretto principio secondo il quale il lavoratore che agisca per
ottenere il compenso per il lavoro straordinario ha l'onere di dimostrare di
aver lavorato oltre l'orario normale di lavoro e, ove egli riconosca di aver
ricevuto una retribuzione ma ne deduca l'insufficienza, è altresì tenuto a
provare il numero di ore effettivamente svolto, senza che eventuali - ma non
decisive - ammissioni del datore di lavoro siano idonee a determinare una
inversione dell'onere della prova (v. in tal senso, Cass. n. 3714 del
16/02/2009). Ha quindi ritenuto che nel caso la prova non fosse stata fornita,
con motivazione che ha tenuto conto delle emergenze istruttorie e che risulta
incensurabile in questa sede di legittimità (per i motivi già esplicitati nel
punto 6.2. che precede).
8.1. Neppure tale
prova risulta essere stata fornita con riferimento ai principi che disciplinano
il lavoro discontinuo. E difatti, in tale contesto il criterio distintivo tra
riposo intermedio, non computabile ai fini della determinazione della durata
del lavoro, e semplice temporanea inattività, computabile, invece, a tali fini,
consiste nella diversa condizione in cui si trova il lavoratore, il quale, nel
primo caso, può disporre liberamente di se stesso per un certo periodo di tempo
anche se è costretto a rimanere nella sede del lavoro o a subire una qualche
limitazione, mentre, nel secondo, pur restando inoperoso, è obbligato a tenere
costantemente disponibile la propria forza di lavoro per ogni richiesta o
necessità. (Cass. n. 5023 del 02/03/2009). Sicché il lavoratore che chieda il
compenso per lavoro straordinario è tenuto a dedurre e dimostrare la ricorrenza
della seconda delle ipotesi contemplate, il che nel caso non risulta essere
stato fatto.
9. Anche l’ultimo
motivo è infondato.
La condanna alle spese
costituisce esito normale della soccombenza del lavoratore ex art. 91 c.p.c..
9.1. Inoltre, il
motivo si limita ad una generica denuncia della mancanza di motivazione in
merito al rispetto della tariffa professionale richiamata dalla Corte di merito
e di violazione della stessa, ma non specifica, in contrasto con il principio
di autosufficienza e di necessaria idoneità della censura a conseguire una
riforma della sentenza gravata, gli errori che sarebbero stati commessi dal
giudice, né precisa le voci della tabella degli onorari e dei diritti che si
ritengono violate, così risultando inammissibile (così ex aliis Cass. n. 18190
del 16/09/2015).
10. Segue il rigetto
del ricorso.
L’esito alterno dei
giudizi di merito in ordine alla legittimità del licenziamento giustifica la
compensazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
10.1. In
considerazione della data di notifica del ricorso, deve darsi atto della
sussistenza dei presupposti di cui al primo periodo dell'art. 13, comma l
quater, del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dal comma 17 dell'art. 1
della Legge 24 dicembre 2012, n. 228, ai fini del raddoppio del contributo
unificato per i casi di impugnazione respinta integralmente o dichiarata
inammissibile o improcedibile.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Compensa tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’ art.
13, comma 1 quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dichiara la sussistenza dei
presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo
a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del
comma 1 bis dello stesso art. 13.
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