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mercoledì 1 luglio 2015

Cassazione - nullità del termine apposto al contratto: escluso lo scioglimento del rapporto per mutuo tacito consenso

Nell’Ordinanza n.13173 del 25 giugno 2015, la Corte di Cassazione ha ribadito che nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell'illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo.

Corte di Cassazione - Ordinanza n.13173 del 25 giugno 2015

Fatto e diritto

La causa è stata chiamata all'adunanza in camera di consiglio del 6 maggio 2015, ai sensi dell'art. 375 c.p.c. sulla base della seguente relazione redatta a norma dell'art. 380 bis c.p.c.:

"La Corte di Appello di Firenze, con sentenza del 27 novembre 2012, confermava la decisione del Tribunale di Grosseto nella parte in cui aveva dichiarato la nullità del termine apposto al contratto di lavoro intercorso tra B.F. e P.I. s.p.a. per il periodo 1.3- 30.6.2000 e la sussistenza di un rapporto a tempo indeterminato tra le parti sin dalla data di assunzione con condanna della società a riammettere il servizio la ricorrente, riformandola sul capo relativo alla conseguenze economiche derivate dalla declaratoria di nullità condannando P.I. al pagamento, a titolo di indennità ex art. 32 della legge n. 183 del 2010, di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto oltre rivalutazione ed interessi ex art. 429 c.p.c.

Il termine al contratto era stato apposto " per esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi e di attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane".

La Corte territoriale — esclusa la ricorrenza di un ipotesi di scioglimento del contratto per mutuo tacito consenso - rilevava che il contratto era stato stipulato dopo lo spirare del termine massimo di vigenza della contrattazione che autorizzava le ipotesi "ulteriori" di legittima apposizione del termine ai contratti di lavoro con la società P.I. (e cioè dopo il 30/4/1998).

Applicava, quindi, lo ius superveniens determinando l’indennità di cui all’art. 32, co.5°, della L. n. 183/2010 nei termini sopra indicati.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso P.I. s.p.a. affidato a due motivi.

La B. resiste con controricorso.

Col primo motivo viene dedotta violazione e falsa applicazione di norme di legge avendo il giudice del gravame rigettato l'eccezione di definitivo scioglimento del rapporto per tacito mutuo consenso dei contraenti senza tener conto che il comportamento inerte delle parti evidenziava il disinteresse al suo ripristino.

Il motivo è infondato.

Come questa Corte ha più volte affermato "nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell'illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo" (v, Cass. 1011-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, nonché più di recente, Cass. 18-11-2010 n. 23319, Cass. 11-3-2011 n. 5887, Cass. 4-8-2011 n. 16932), La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine, quindi, "è di per sè insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso" (v. Cass. 15- 11-2010 n. 23057, Cass. 11-3-2011 n. 5887), mentre "grava sul datore di lavoro", che eccepisca tale risoluzione, "l'onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro" (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070 e fra le altre, Cass. 1- 2-2010 n. 2279).

Tale principio, del tutto conforme al dettato di cui agli artt. 1372 e 1321 c.c., va ribadito anche in questa sede, così confermandosi l'indirizzo prevalente ormai consolidato, basato in sostanza sulla necessaria valutazione dei comportamenti e delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del rapporto, non essendo all'uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo e neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto.

Orbene nella fattispecie la Corte d'Appello ha rilevato che non erano emersi altri elementi significativi rispetto al mero decorso del tempo.

Tale accertamento di fatto, compiuto dalla Corte di merito, risulta aderente al principio sopra richiamato e resiste alle censure della società ricorrente che, in sostanza, si incentrano genericamente sulla proposizione di una diversa lettura della inerzia, pur prolungata, della lavoratrice e della accettazione senza riserve da parte sua del TFR.

Con il secondo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. in relazione alla interpretazione dell’accordo collettivo del 25.9.1997 e degli accordi collettivi nazionali di lavoro.

Si assume che, facendo corretta applicazione dei criteri ermeneutici di cui all'art. 1362 c.c. e segg., e, in particolare, ricercando la volontà comune delle parti nello stipulare l'integrazione all'art. 8 CCNL 1994, doveva concludersi che gli accordi collettivi non fissavano alcun limite temporale alla stipula dei contratti a termine.

Il motivo è infondato.

Ed infatti la costante giurisprudenza di questa Corte ritiene che la L. 28 febbraio 87, n. 56, art. 23, nel demandare alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare - oltre le fattispecie tassativamente previste dalla L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1 nonché dal D.L. 29 gennaio 1983, n. 17, art. 8 bis conv. dalla L. 15 marzo 1983, n. 79 - nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati, i quali, pertanto, non sono vincolati all'individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge (v. S.u. 2.3.06 n. 4588).

Dato che in forza di tale delega le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui all'accordo integrativo del 25.9.97, la giurisprudenza considera corretta l'interpretazione dei giudici di merito che, con riferimento agli accordi attuativi sottoscritti lo stesso 25.9.97 e il 16.1.98, ha ritenuto che con tali accordi le parti abbiano convenuto di riconoscere la sussistenza dapprima fino al 31.1.98 e poi (in base al secondo accordo) fino al 30.4.98 della situazione di fatto integrante delle esigente eccezionali menzionate dal detto accordo integrativo. Per far fronte a tali esigenze l'impresa poteva dunque procedere ad assunzione di personale con contratto tempo determinato solo fino al 30.4.98, di modo che debbono ritenersi privi di presupposto normativo i contratti a termine stipulati successivamente. Le parti collettive, dunque, avevano raggiunto un'intesa senza limite temporale ed avevano poi stipulato accordi attuativi che tale limite avevano posto, fissandolo prima al 31.1.98 e dopo al 30.4.98, per cui l'indicazione di quella causale nel contratto a termine avrebbe legittimato l'assunzione solo se il contratto fosse scaduto dopo il 30.4.98 (v., explurimis, Cass. 23.8.06 n. 18378).

La giurisprudenza ha, altresì, ritenuto irrilevante l'accordo 18.01.01 perché stipulato dopo oltre due anni dall'ultima proroga, e cioè quando si era già perfezionato il diritto all'accertamento della nullità. Anche se con quell'accordo le parti avessero voluto interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell'accordo 25.09.97 (ormai scaduto), comunque sarebbe stato violato il principio dell'indisponibilità del diritto dei lavoratori, dovendosi escludere che le parti stipulanti potessero, con detto strumento, autorizzare ex post contratti a termine non più legittimi perché adottati in violazione della durata in precedenza stabilita (vedi, per tutte, Cass. 12.03.04 n. 5141).

L'esistenza delle esigente eccezionali è dunque negozialmente riconosciuta fino al 30.04.98, di modo che la legittimità dei contratti a termine stipulati entro tale data è basata su una ricognizione di fatto derivante direttamente dal sistema normativo nato dall'attuazione dell'art. 23. Essendo stato il contratto della B. stipulato per un periodo successivo al 30.4.1998 il motivo è infondato.

Con il terzo motivo si deduce violazione a falsa applicazione dell’art. 8 della legge n. 604 del 1966 assumendosi che la Corte di Appello aveva errato nell’applicazione dei criteri di cui all’art. 8 cit. omettendo di dare rilievo alla anzianità di servizio della Bianchi ed alla sua prolungata inerzia prima di contestare la nullità dell’apposizione del termine al contratto de quo.

Il motivo è inammissibile.

Ed infatti, in applicazione dei principi generali in materia di sindacato di legittimità, con particolare riferimento all'art. 360 cod. proc. civ., deve affermarsi, coerentemente con quanto più volte statuito da questa Corte in tema di indennità di cui all'art. 8 della legge n. 604 del 1966 (cfr. Cass. 5 gennaio 2001 n. 107; Cass. 15 maggio 2006 n. 11107; Cass. 14 giugno 2006 n. 13732; da ultimo, con riferimento all’art. 32 comma 5° , per tutte, vedi Cass. n. 8747/2014 ) che la determinazione tra il minimo e il massimo della misura dell'indennità de qua spetta al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per motivazione assente, illogica o contraddittoria.

Nel caso in esame la Corte territoriale ha tenuto conto, come si evince dalla lettura della motivazione, dei criteri stabiliti nell'art. 8 della legge n. 604 del 1966 (la durata del rapporto di lavoro, le rilevanti dimensioni aziendali ed anche il tempo intercorso anteriormente alla pronuncia giudiziale) ed ha concluso nel senso che ha ritenuto congruo determinare l'indennità onnicomprensiva in sei mensilità.

Alla luce di quanto esposto si propone il rigetto del ricorso, con ordinanza ex art. 375 n. 5 c.p.c..".

Sono seguite le rituali comunicazioni e notifica della suddetta relazione, unitamente al decreto di fissazione della presente udienza in Camera di consiglio.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c.. In particolare P.I. argomenta circa la natura "onnicomprensiva" della indennità ex art. 32 l. n. 183/2010 deducendo che erroneamente nella impugnata sentenza era stata disposta la condanna di essa ricorrente anche alla retribuzione maturata dalla data della sentenza di primo grado fino alla riammissione in servizio, oltre rivalutazione monetaria ed interessi ex art. 429 c.p.c..

Orbene, osserva il Collegio che tale deduzione integra un inammissibile ulteriore motivo di ricorso che non può trovare ingresso in sede di memoria ex art. 380 bis c.p.c. avente solo un contenuto illustrativo dei motivi già proposti nel ricorso oltre che di critica al contenuto della relazione ex art 375 c.p.c..

Ad ogni buon conto sarebbe anche infondato alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui l'indennità in esame deve essere annoverata fra i crediti di lavoro ex art. 429, comma 3, cod. proc. civ. giacché, come più volte affermato da questa Corte, tale ampia accezione si riferisce a tutti i crediti connessi al rapporto di lavoro e non soltanto a quelli aventi natura strettamente retributiva (cfr., ad esempio, per i crediti liquidati ex art. 18 legge n. 300 del 1970, Cass. 23, gennaio 2003 n. 1000; Cass. 6 settembre 2006 n. 19159; per l'indennità ex art. 8 della legge n. 604 del 1966, Cass. 21 febbraio 1985 n. 1579; per le somme liquidate a titolo di risarcimento del danno ex art. 2087 cod. civ., Cass. 8 aprile 2002 n. 5024). D'altra parte l'indennità in esame rappresenta comunque il ristoro (sia pure forfetizzato e onnicomprensivo) dei danni conseguenti alla nullità del termine apposto al contratto di lavoro, relativamente al periodo che va dalla scadenza del termine alla data della sentenza di conversione del rapporto. E’ evidente, dunque, che dopo tale data sono dovute le retribuzioni fino alla riammissione in servizio.

A tali principi si è attenuta la Corte di appello di Firenze.

Alla luce del contenuto della relazione, pienamente condivisa dal Collegio, e delle ulteriori considerazioni esposte il ricorso va rigettato. Le spese del presente giudizio, per il principio della soccombenza, sono poste a carico della ricorrente e vengono liquidate come da dispositivo con attribuzione all’avv., V.S. per dichiarato anticipo fattone.

Sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dall'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio, introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013). Tale disposizione trova applicazione ai procedimenti iniziati in data successiva al 30 gennaio 2013, quale quello in esame, avuto riguardo al momento in cui la notifica del ricorso si è perfezionata, con la ricezione dell'atto da parte del destinatario (Sezioni Unite, sent n. 3774 del 18 febbraio 2014). Inoltre, il presupposto di insorgenza dell'obbligo del versamento, per il ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art.1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l'impugnante, del gravame (Cass. n. 10306 del 13 maggio 2014).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso, condanna P.I. al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in euro 100,00 per esborsi, euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese forfetario nella misura del 15% con attribuzione all’avv. V.S..

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13.

 

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