Prima dell’entrata in vigore del D.Lgs.
n. 23/2015 il recesso con il lavoratore che avesse raggiunto i requisiti per la
pensione, andava affrontato prendendo in considerazione distinti e specifici
disposti normativi adottati nel corso del tempo.
Il primo dei provvedimenti legislativi
in questione è rappresentato della Legge n. 108/90, la quale dopo aver abrogato
le precedenti disposizioni sul tema, dichiarate incostituzionali per via della
disparità di trattamento tra uomo e donna, stabiliva attraverso l’art. 4 co. 2,
che “le disposizioni di cui all'articolo
18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall'articolo 1 della
presente legge, e dell'articolo 2 non si applicano nei confronti dei prestatori
di lavoro ultrasessantenni, in possesso dei requisiti pensionistici, sempre che
non abbiano optato per la prosecuzione del rapporto di lavoro ai sensi
dell'articolo 6 del decreto-legge 22 dicembre 1981, n. 791, convertito, con
modificazioni, dalla legge 26 febbraio 1982, n. 54.”
Il licenziamento dei soggetti
ultrasessantenni in possesso dei requisiti pensionistici veniva ricondotto alla
c.d. area della libera recedibilità di cui all’art. 2118 c.c. (“ciascuno dei contraenti può recedere dal
contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando il preavviso nel termine e nei
modi stabiliti dalle norme corporative, dagli usi o secondo equità.
In mancanza di
preavviso, il recedente è tenuto verso l’altra parte a un’indennità equivalente
all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di
preavviso. La stessa indennità è dovuta dal datore di lavoro nel caso di
cessazione del rapporto per morte del prestatore di lavoro”).
Successivamente, in forza dell’art. 6
comma 2 bis del D.L. n. 248/2007 il legislatore stabiliva che, il licenziamento
ad nutum non poteva aver luogo fino a quando non fosse stata raggiunta la
“finestra” per l’effettiva decorrenza del trattamento pensionistico di
vecchiaia (“L'efficacia delle
disposizioni di cui all'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e
successive modificazioni, nei confronti del prestatore di lavoro nelle
condizioni previste dall'articolo 4, comma 2, della legge 11 maggio 1990, n.
108, è comunque prorogata fino al momento della decorrenza del trattamento
pensionistico di vecchiaia spettante al prestatore medesimo”).
Infine, un intervento normativo
particolarmente incisivo in materia è rappresentato dal vigente art. 24 del
D.L. n.201/2011, secondo il quale “il proseguimento dell'attività lavorativa è
incentivato, fermi restando i limiti ordinamentali dei rispettivi settori di
appartenenza, dall'operare dei coefficienti di trasformazione calcolati fino
all'età di settant'anni, fatti salvi gli adeguamenti alla speranza di vita, come
previsti dall'articolo 12 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito,
con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122 e successive
modificazioni e integrazioni. Nei
confronti dei lavoratori dipendenti, l'efficacia delle disposizioni di cui
all'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 e successive modificazioni
opera fino al conseguimento del predetto limite massimo di flessibilità.”
In forza di tale norma, pertanto, ai
lavoratori è consentita la prosecuzione dell’attività lavorativa anche oltre i
nuovi requisiti di età anagrafica previsti per la pensione di vecchiaia, fino
al limite massimo di 70 anni; e sino a tale età, ai lavoratori continuano ad
applicarsi le disposizioni di cui all’art. 18 Stat. Lav.
Fin dalla sua entrata in vigore tale
disposizione aveva suscitato diverse perplessità, legate all’irrigidimento del mercato
del lavoro, non consentendo un adeguato cambio generazionale e poiché la stessa
norma estendeva la tutela reale nei confronti dei soli soggetti dipendenti da
imprese in possesso dei requisiti per l’applicazione dell’art. 18, escludendo i
dipendenti dalla c.d. piccole imprese (non aventi i requisiti per
l’applicazione dell’art. 18 Stat. Lav). Peraltro, per le stesse ragioni,
rimangono esclusi dal campo di applicazione della disposizione in esame anche i
dirigenti.
I lavoratori con
le tutele crescenti
Alla luce di quanto è stato
precedentemente riportato, sul piano letterale l’articolo 24 richiamato ha un
ambito soggettivo limitato ai soli lavoratori nei cui confronti trova applicazione
l’art. 18 Stat. Lav.
Si pone dunque il problema di analizzare
gli effetti a questi fini delle nuove disposizioni contenute nel D.Lgs. n.
23/2015 in tema di tutele crescenti.
Va ricordato che il regime giuridico
delle tutele crescenti non si applica solo ai giovani lavoratori assunti a
tempo indeterminato dal 7 marzo 2015, ma anche ai lavoratori prossimi alla
pensione che cambino azienda a partire da tale data.
Pertanto, è ragionevole ritenere che si
tratti di una questione che potrebbe rappresentarsi anche nel prossimo futuro.
Sul punto, l’articolo 24 recita “Nei confronti dei lavoratori dipendenti,
l'efficacia delle disposizioni di cui all'articolo 18 della legge 20 maggio
1970, n. 300 e successive modificazioni opera fino al conseguimento del
predetto limite massimo di flessibilità”.
Sul piano letterale, dunque, la norma si
pone l’obiettivo di “estendere” la tutela legale dell’art. 18 nel suo ambito temporale,
ma non anche nel suo ambito soggettivo. Questo vuol dire che non appare
possibile estendere tale disposizione normativa ai lavoratori assunti con il
regime legale delle tutele crescenti.
Ne consegue, dunque, che non sembrano
sussistere dubbi circa la non applicabilità del disposto in esame a tutti i lavoratori
assunti dal 7 marzo 2015 (data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 23/2015) ai
quali non trova più applicazione l’articolo 18.
In conclusione se nel quadro normativo
vigente al 6 marzo 2015 erano esclusi dall’ambito applicativo dell’articolo 24
i lavoratori dipendenti dalle imprese riconducibili nella sfera della tutela
obbligatoria e quelli già esclusi da un tutela reale (dirigenti), nell’attuale
scenario normativo sono altresì esclusi dalla norma in esame anche i lavoratori
nei confronti dei quali si applica il regime delle tutele crescenti.
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