Nel caso
di specie, la Corte di Appello di Napoli, in riforma della sentenza del
Tribunale del capoluogo campano, aveva rigettato la domanda proposta da un
dipendente intesa ad ottenere la condanna dell’azienda al risarcimento del
danno biologico, morale e patrimoniale per il tumore che, a suo dire, avrebbe
contratto in conseguenza dell’attività lavorativa. Parimenti, la Corte
territoriale aveva rigettato la domanda con la quale la moglie del ricorrente aveva
convenuto in giudizio l’impresa per la lesione del diritto a regolari rapporti
sessuali, scaturito dalla patologia contratta dal marito.
Il
giudice dell’appello aveva fondato il proprio convincimento dalla consulenza
tecnica d’ufficio svolta nel primo grado e delle prove testimoniali assunte,
dalle quali era emersa la mera possibilità e non elevata probabilità che la
patologia tumorale fosse dipesa dall’ambiente
di lavoro nel quale aveva operato il ricorrente.
Avverso
questa sentenza, i due coniugi avevano adito la Cassazione, deducendo che il
giudice dell’appello non avrebbe osservato i principi in ordine all’onere della
prova, non considerando che gli originari attori avrebbero assolto a tale onere
a mezzo della prova testimoniale che avrebbe confermato l’esposizione del
lavoratore in questione agli agenti patogeni che avrebbero causato la malattia,
ed a mezzo dell’espletata consulenza tecnica d’ufficio, che avrebbe confermato
l’origine professionale della patologia ed il nesso causale con l’attività
lavorativa.
I due
ricorrenti, inoltre, avevano lamentato che la Corte territoriale non avrebbe
correttamente considerato la consulenza tecnica medico legale svolta nel
giudizio di primo grado, e non avrebbe correttamente valutato l’attendibilità
dei testi assunti che avrebbero tutti confermato l’esposizione al rischio del
dipendente nello svolgimento della sua attività lavorativa.
Investita
della questione, la Cassazione ha ritenuto infondate le doglianze predette, ricordando
che, quella inerente alle prove testimoniali e alla consulenza tecnica, è una
valutazione riservata al giudice del merito e, dunque, incensurabile in sede di
legittimità quando, come nella specie, sorretta da logica e congrua
motivazione.
In
particolare, gli ermellini hanno sottolineato come la Corte territoriale avesse
preso in considerazione anche la preparazione specifica del consulente tecnico
nominato, specialista in oncologia, e le mansioni svolte dal dipendente,
ricavate dalle prove testimoniali dettagliatamente richiamate, che avevano confermato la non continuità della
vicinanza del lavoratore ad agenti patogeni.
In punto
di diritto, inoltre, la stessa Corte di Appello aveva fatto corretta
applicazione dei principi di diritto affermati dalla giurisprudenza di legittimità,
secondo i quali, in tema di malattie ed eziologia plurifattoriali, la prova
della causa di lavoro o della speciale nocività dell'ambiente di lavoro, che
grava sul dipendente, deve essere valutata in termini di ragionevole certezza,
nel senso che, esclusa la mera possibilità dell'origine professionale, questa
può essere invece ravvisata in presenza di un rilevante grado di probabilità (1).
In virtù
di tali considerazioni, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso, compensando
fra le parti le spese di giudizio.
Valerio
Pollastrini
1)
- per tutte,
Cass., Sentenza n.10818 dell’8 maggio 2013;
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