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venerdì 16 gennaio 2015

Malattia professionale: nessun risarcimento se il nesso causale con l’attività lavorativa non è certo

Nella sentenza n.467 del 14 gennaio 2015, la Corte di Cassazione ha precisato che, in assenza di un nesso causale certo, la malattia contratta dal dipendente non può ritenersi scaturita dall’attività lavorativa svolta.

Nel caso di specie, la Corte di Appello di Napoli, in riforma della sentenza del Tribunale del capoluogo campano, aveva rigettato la domanda proposta da un dipendente intesa ad ottenere la condanna dell’azienda al risarcimento del danno biologico, morale e patrimoniale per il tumore che, a suo dire, avrebbe contratto in conseguenza dell’attività lavorativa. Parimenti, la Corte territoriale aveva rigettato la domanda con la quale la moglie del ricorrente aveva convenuto in giudizio l’impresa per la lesione del diritto a regolari rapporti sessuali, scaturito dalla patologia contratta dal marito.

Il giudice dell’appello aveva fondato il proprio convincimento dalla consulenza tecnica d’ufficio svolta nel primo grado e delle prove testimoniali assunte, dalle quali era emersa la mera possibilità e non elevata probabilità che la patologia tumorale  fosse dipesa dall’ambiente di lavoro nel quale aveva operato il ricorrente.

Avverso questa sentenza, i due coniugi avevano adito la Cassazione, deducendo che il giudice dell’appello non avrebbe osservato i principi in ordine all’onere della prova, non considerando che gli originari attori avrebbero assolto a tale onere a mezzo della prova testimoniale che avrebbe confermato l’esposizione del lavoratore in questione agli agenti patogeni che avrebbero causato la malattia, ed a mezzo dell’espletata consulenza tecnica d’ufficio, che avrebbe confermato l’origine professionale della patologia ed il nesso causale con l’attività lavorativa.

I due ricorrenti, inoltre, avevano lamentato  che la Corte territoriale non avrebbe correttamente considerato la consulenza tecnica medico legale svolta nel giudizio di primo grado, e non avrebbe correttamente valutato l’attendibilità dei testi assunti che avrebbero tutti confermato l’esposizione al rischio del dipendente nello svolgimento della sua attività lavorativa.

Investita della questione, la Cassazione ha ritenuto infondate le doglianze predette, ricordando che, quella inerente alle prove testimoniali e alla consulenza tecnica, è una valutazione riservata al giudice del merito e, dunque, incensurabile in sede di legittimità quando, come nella specie, sorretta da logica e congrua motivazione.

In particolare, gli ermellini hanno sottolineato come la Corte territoriale avesse preso in considerazione anche la preparazione specifica del consulente tecnico nominato, specialista in oncologia, e le mansioni svolte dal dipendente, ricavate dalle prove testimoniali dettagliatamente richiamate,  che avevano confermato la non continuità della vicinanza del lavoratore ad agenti patogeni.

In punto di diritto, inoltre, la stessa Corte di Appello aveva fatto corretta applicazione dei principi di diritto affermati dalla giurisprudenza di legittimità, secondo i quali, in tema di malattie ed eziologia plurifattoriali, la prova della causa di lavoro o della speciale nocività dell'ambiente di lavoro, che grava sul dipendente, deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la mera possibilità dell'origine professionale, questa può essere invece ravvisata in presenza di un rilevante grado di probabilità (1).

In virtù di tali considerazioni, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso, compensando fra le parti le spese di giudizio.

Valerio Pollastrini


1)      - per tutte, Cass., Sentenza n.10818 dell’8 maggio 2013;

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