La
vicenda da cui è scaturita la pronuncia in commento è quella che ha riguardato
il dipendente di una banca, licenziato per un errore commesso nella contabilizzazione
di un addebito conseguente ad un’operazione di prelievo in contanti di 2.000,00 €.
Decidendo
sull’impugnativa del recesso proposta dal lavoratore, sia il Tribunale di
Pescara che, successivamente, la Corte di Appello di L’Aquila ne avevano
rigettato la domanda, dichiarando legittimo il licenziamento disciplinare.
Il
dipendente aveva quindi adito la Cassazione, prospettando, tra l’altro,
violazione e falsa applicazione degli artt.1 della Legge n.604/1966 e 7 dello
Statuto dei Lavoratori per avere i giudici dell’appello ravvisato una giusta
causa di licenziamento nella mera svista
colposa, scaturita da un errore nella digitazione del numero di un conto
corrente (10/6859 anziché 10/6958), a causa della quale aveva addebitato il
prelievo in contanti di 2.000,00 € di un
cliente sul c/c di un altro.
Investita
della questione, la Cassazione ha ritenuto fondata la predetta censura.
Nella
premessa, gli ermellini hanno ricordato che, in virtù di quanto costantemente
affermato dalla giurisprudenza di legittimità, “per giustificare un licenziamento disciplinare i fatti addebitati devono
rivestire il carattere di grave violazione degli obblighi del rapporto di
lavoro, tale da lederne irrimediabilmente l'elemento fiduciario; la relativa valutazione
deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura
e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di
affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento
eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle
circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all'intensità dell'elemento
intenzionale o di quello colposo” (1).
Quello
appena evidenziato, è un principio al quale, nel caso di specie, la Corte territoriale
aveva mancato di attenersi.
Nell’accertare
la proporzionalità fra illecito disciplinare e sanzione applicata il giudice
dell’appello, infatti, aveva valutato soltanto il grado di affidamento implicato
dalle mansioni svolte dal ricorrente ed
i suoi precedenti disciplinari, senza alcun apprezzamento dell’assenza di danno
per l’istituto di credito o per taluno dei suoi correntisti od approfondimento
in ordine all’intensità dell’elemento colposo.
Secondo
la Suprema Corte, l’affermazione contenuta nell’impugnata sentenza circa il particolare
grado di affidamento richiesto dalle mansioni di cassiere, per quanto in linea
di principio esatta, non esimeva, però, il giudice di merito dal compiere un
concreto apprezzamento della vicenda, in particolare per quel che atteneva
all’esistenza o meno di danno e all’elemento soggettivo che aveva connotato la
condotta addebitata in sede disciplinare.
Volendo
procedere diversamente, infatti, qualsiasi svista o lapsus, solo perché
attribuibile ad un cassiere di banca, si convertirebbe in giusta causa o giustificato
motivo di recesso, surrettiziamente trasformando ogni errore nell’espletare
tale tipo di mansioni in una sorta di oggettivo e predeterminato criterio di
applicazione della sanzione espulsiva.
Nei
fatti, la condotta oggetto di contestazione aveva configurato la mera svista del lavoratore che, operando al
terminale, aveva sbagliato nel digitare il numero di conto su cui addebitare
un’operazione.
Si
era trattato, in sostanza, di un errore causato da una pura e semplice
difformità tra un movimento, un’azione o un’affermazione elaborata a livello psichico
e la sua concretizzazione motoria o verbale, difformità riconducibile alla
sfera del controllo degli impulsi nervosi e/o dell'inconscio piuttosto che alla
colpa propriamente intesa in senso disciplinare/giuslavoristico e che non aveva
messo in discussione neppure le competenze esigibili nei confronti del
lavoratore adibito a determinate mansioni.
Nell'accogliere il ricorso, la Suprema Corte ha osservato che "non costituisce giusta causa o giustificato
motivo di licenziamento una mera svista commessa dal lavoratore nell’’espletamento
delle proprie mansioni e priva di conseguenze dannose per il datore di lavoro
e/o per terzi".
Valerio
Pollastrini
1)
-
cfr, per tutte, Cass., Sentenza n.7394/2000;
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