Con la sentenza n.21940
la Corte di Cassazione, sezione lavoro, ha escluso che la semplice detenzione
per uso personale di marijuana, con esclusione dell’ipotesi del reato di
spaccio, possa legittimare il licenziamento intimato dall’azienda.
Si tratta infatti di una
situazione privata extralavorativa la cui gravità non può incidere sulla
lesione del vincolo fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro
subordinato.
Il caso riguarda un
dipendente di Poste Italiane con mansioni di portalettere, arrestato per i reati di detenzione e spaccio
di sostanze stupefacenti.
L’azienda, dopo aver
provveduto ad una prima sospensione
cautelare, aveva successivamente licenziato il lavoratore al termine del
procedimento penale che si era concluso con il patteggiamento. La giusta causa
di licenziamento, a parere del datore di lavoro, muoveva dall’assunto che il
reato per il quale era stato condannato il dipendente riflettesse comunque
conseguenze negative sia nell’ambito lavorativo che sull’immagine della
società.
Il lavoratore aveva
quindi impugnato il licenziamento e il Tribunale di primo grado aveva accolto
le sue richieste, dichiarando l’illegittimità del recesso con conseguente reintegra
nel posto di lavoro e condanna della società al pagamento dell’indennità
risarcitoria.
La Corte di Appello nel
confermare la decisione di primo grado rilevava che il reato ascritto nel corso
del giudizio era stato derubricato da detenzione e spaccio a semplice
detenzione per uso personale. La fattispecie dunque andava configurata come situazione privata extralavorativa non idonea
ad incidere sul rapporto di lavoro e ad impedirne la prosecuzione.
Avverso tale decisione
l’azienda aveva proposto ricorso in
Cassazione.
La Suprema Corte ha
ritenuto corrette le motivazioni della Corte di merito, confermando che il
semplice reato di detenzione di sostanze
stupefacenti, con l’accertata esclusione dello spaccio, attiene solo ad una
situazione privata extralavorativa del dipendente e che la stessa non può incidere sul necessario rapporto di fiducia
tra datore di lavoro e lavoratore.
Sulla base di tali
considerazioni, la Suprema Corte ha quindi respinto il ricorso proposto dalla
società.
Valerio Pollastrini
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