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sabato 29 novembre 2014

Appalti – Abolita la responsabilità solidale

Il prossimo 13 dicembre entreranno in vigore alcune disposizioni contenute nel D.Lgs. n.175 del 21 novembre 2014, meglio noto come “Decreto sulle semplificazioni fiscali(1).

Tra queste, la misura  più interessante è quella che riguarda l’abolizione della responsabilità fiscale negli appalti, attraverso l’abrogazione dei commi da 28 a 28-ter, dell’art.35 del D.L. n.223/2006. 

Si tratta delle norme in base alle quali, in caso di appalto di opere o  servizi, l’appaltatore era chiamato a rispondere in solido con il subappaltatore delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente dovute all’erario da quest’ultimo, con riferimento alle prestazioni eseguite nell’ambito del rapporto di subappalto, sebbene nei limiti dell’ammontare del corrispettivo dovuto.

Valerio Pollastrini


1)      – Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n.277 del 28 novembre 2014;

Nuova gestione del DURC interno Inps

Nel Messaggio n.9152 del 26 novembre 2014, l’Inps ha fornito ulteriori chiarimenti in merito alla nuova gestione del DURC interno, al quale,  ai sensi dell’art.1, comma 1175, della Legge n.296/2006, è subordinato l’accesso del datore di lavoro ad eventuali benefici contributivi.

In particolare, l’Istituto ha voluto precisare alcuni aspetti legati al computo del termine per regolarizzare, al mancato pagamento delle sanzioni e alle notifiche di nuovi preavvisi di DURC interno negativo.

Computo del termine per regolarizzare
Attraverso il preavviso di DURC interno negativo il datore di lavoro viene invitato  a sanare le irregolarità ivi segnalate  entro i 15 giorni successivi alla notifica del documento.

Per il corretto computo dei termini suddetti, l’Inps ha precisato che:

-         qualora il termine scada di sabato o in un giorno festivo, l’attività di regolarizzazione s’intende utilmente effettuata purché intervenga al massimo entro il primo giorno successivo non festivo;

-         il giorno di notifica non si computa.

Nella Nota in commento, l’Istituto ha precisato, inoltre, che il datore di lavoro, che, quand’anche abbia provveduto alla regolarizzazione,  riceva un DURC interno negativo, potrà chiederne l’annullamento alla competente sede territoriale, la quale provvederà ad effettuare una forzatura regolarizzando la posizione aziendale.

Mancato pagamento delle sanzioni
L’Inps ha poi ricordato che per regolarizzare una posizione è necessario che siano versati anche gli importi dovuti a titolo di sanzioni.

Di conseguenza,  nel caso di preavviso di DURC interno negativo, per sanare la propria posizione il datore di lavoro dovrà pagare anche le eventuali sanzioni entro 15 giorni.

Sul punto, l’Istituto ha chiarito che, poiché il principio suddetto non è stato richiamato nei precedenti Messaggi, i datori di lavoro interessati potranno provvedere alla regolarizzazione delle sanzioni entro 15 giorni dalla pubblicazione del presente Messaggio, al fine di ottenere l’annullamento del DURC interno negativo.

Notifiche di nuovi preavvisi di DURC interno negativo
In considerazione dei molteplici adempimenti previsti per la fine dell’anno, l’Inps ha rinviato al mese di gennaio 2015 il riavvio delle operazioni di spedizione dei preavvisi di DURC interno negativo.

Valerio Pollastrini

Ex moglie laureata in possesso di occupazione – Assegno di mantenimento

Nell’Ordinanza n.24420 depositata il 17 novembre 2014, la Corte di Cassazione ha precisato che, in presenza di  una sproporzione tra i redditi dei due ex coniugi, l'assegno di mantenimento, seppure in misura ridotta, va riconosciuto anche alla ex moglie laureata che abbia trovato un lavoro.

Nel caso di specie, l'ex marito aveva impugnato la sentenza con la quale il Tribunale del primo grado  aveva posto a suo carico l’obbligo di versare alla moglie un assegno divorzile di 150,00 €.

L'uomo, in particolare,  aveva suffragato la propria domanda precisando  che la ex compagna si era laureata in scienze naturali ed aveva trovato un’occupazione presso un Bio Parco, grazie alla quale percepiva una retribuzione mensile di circa 1.300,00 €, con l’aggiunta degli assegni familiari.

A ciò, il ricorrente aveva aggiunto che la donna poteva utilizzare l’appartamento messole a disposizione dai genitori, mentre egli, pur godendo di un reddito mensile di 1.800,00 €, risultava oberato della spesa di 450,00 € per il canone di locazione, oltre all’assegno  per  il mantenimento per il figlio.

Tuttavia, la Corte di Appello, rilevata la differenza di redditi tra i due, aveva ritenuto giustificato il diritto della donna  all’assegno divorzile, sia pure di modesta entità.

Contro questa sentenza, l’uomo aveva adito la Cassazione, contestando la supposta disparità di trattamento dedotta dal giudice dell’appello, sostenendo che il suo reddito avrebbe dovuto essere valutato al netto del canone di locazione e delle somme richiestegli per il mantenimento del figlio.

Investiti della questione, gli ermellini, nel confermare quanto disposto dalla Corte del merito, hanno rigettato il ricorso.

Valerio Pollastrini

Certificazione Unica 2015 (ex CUD)

L'Agenzia delle Entrate ha recentemente pubblicato sul proprio portale la nuova bozza del modello di Certificazione Unica 2015 (ex CUD) per i redditi 2014, corredata delle istruzioni per la corretta compilazione e delle specifiche tecniche per l’invio telematico.

Rispetto al vecchio modello CUD, la nuova bozza di Certificazione Unica, richiedendo maggiori notizie sul contribuente, appare improntata sulla falsa riga del modello 770.

Oltre alle consuete informazioni relative ai redditi di lavoro dipendente, equiparati e assimilati, percepiti nel corso del 2014, e ai contributi previdenziali e assistenziali Inps, infatti, il nuovo modello CU 2015 conterrà:

-         i dati riguardanti il coniuge, i figli e gli altri familiari a carico del dipendente o pensionato per i quali sono state riconosciute le detrazioni per carichi di famiglia;

-         i dati relativi al Bonus Renzi, ovvero il bonus Irpef di 80 euro in busta paga;

-         nuovi campi riguarderanno il contributo di solidarietà e l’abbattimento della base imponibile dei redditi erogati ai ricercatori che rientrano in Italia dopo aver maturato un periodo lavorativo all’estero;

-         il prospetto con i dati fiscali di chi ha percepito redditi di lavoro autonomo, provvigioni e redditi diversi; il nuovo modello CU 2015 sostituirà quindi anche la vecchia certificazione dei compensi da rilasciare a cura del sostituto d’imposta.

Tra le novità si segnala che, oltre alla consueta copia da consegnare agli interessati entro la fine di febbraio, i sostituti d’imposta dovranno inviare telematicamente all’Agenzia delle Entrate la Certificazione Unica 2015 entro il 7 marzo 2015, utilizzando  i consueti canali Entratel e FiscoOnline.

A tale proposito, l’Agenzia ha chiarito che il flusso telematico da inviare all’Amministrazione finanziaria è composto: dal frontespizio, nel quale, tra gli altri, dovranno essere indicati i dati relativi al sostituto, al firmatario della comunicazione e all’intermediario incaricato della trasmissione; dal quadro Ct, contenente l’indirizzo web prescelto per ricevere il flusso dei modelli 730-4; dalla vera e propria certificazione unica.

In sostanza, il modello Cu 2015 sarà propedeutico al nuovo 730 precompilato, che, a partire dal prossimo anno, sarà inviato agli utenti in via sperimentale.

In conclusione, giova ricordare che l’invio della certificazione potrà avvenire a cura del sostituto d’imposta o di un suo intermediario e che i termini per la trasmissione saranno uguali a quelli previsti per le altre dichiarazioni.

Valerio Pollastrini

Eliminare la Legge 407/90 penalizza le aziende

Nella Circolare n.9/2014, la   Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro ha fortemente criticato l’intenzione del Governo di sostituire gli sgravi previsti dalla Legge n.407/1990 con quelli introdotti dalla manovra di Stabilità 2015 per l’instaurazione dei  contratti a tutele crescenti.

In particolare, i Cdl hanno ricordato come, negli ultimi 24 anni, attraverso lo sgravio contributivo previsto dalla 407 del 90, specie nei territori del Mezzogiorno, siano stati avviati alcuni milioni di rapporti di lavoro.

La soppressione di questa norma, pertanto,  ove non bilanciata da una disposizione di pari impatto economico-sociale, rischia di provocare immediate ripercussioni sui già traballanti livelli occupazionali.

A proposito del progetto governativo sul contratto a tutele crescenti, la Circolare in commento ha rimarcato due aspetti che potrebbero metterne a rischio l’utilità ancor prima di entrare in vigore: la natura della riduzione del costo e la convenienza rispetto ad altre agevolazioni.

La natura della riduzione del costo
Sul punto, l’articolo 12 del Disegno di Legge di Stabilità 2015 appare, quanto meno, contraddittorio, in quanto, se, da un lato, sembra attribuire natura di “sgravio contributivo” (e quindi di agevolazione contributiva) alla riduzione del costo del lavoro per tre anni, dall’altro, invece, definisce la riduzione un “esonero” contributivo, facendo presumere, pertanto, che l’incentivo  non sia configurabile come agevolazione contributiva,  ma una riduzione strutturale del costo del lavoro, seppure temporanea.

Si tratta di una differenza non da poco, atteso che, qualora l’intervento configurato dall’articolo 12 venisse qualificato come agevolazione contributiva, scatterebbero a cascata una serie di norme che ne legherebbero l’accesso a condizioni  di difficile attuazione.

In tal caso, infatti, la riduzione spetterebbe esclusivamente se subordinata:

1)    alla regolarità dell’adempimento degli obblighi contributivi;

2)    all’osservanza delle norme poste a tutela delle condizioni di lavoro;

3)    al rispetto degli accordi e contratti collettivi nazionali nonché di quelli regionali, territoriali o aziendali, laddove sottoscritti, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale;

4)    l'assunzione non deve costituire attuazione di un obbligo preesistente, stabilito da norme di legge o della contrattazione collettiva;

5)    al fatto che l’assunzione non deve violare il diritto di precedenza, stabilito dalla legge o dal contratto collettivo;

6)    qualora in azienda ci siano in atto sospensioni dal lavoro connesse ad una crisi o riorganizzazione aziendale, l’assunzione deve riguardare una professionalità “sostanzialmente” diversa rispetto a quella dei lavoratori sospesi;

7)    alla circostanza che il datore di lavoro deve realizzare il mantenimento dell’incremento netto dell’occupazione, rispetto alla media della forza occupata nell’anno precedente l’assunzione (cosiddetto calcolo ULA);

8)    al rispetto delle condizioni generali di compatibilità con il mercato interno, previste dai Regolamenti comunitari.

Ciò detto, la Fondazione ha osservato come, al di là della complessità e dei vincoli sanciti dalle norme vigenti, molto spesso anche le aziende più virtuose non possano fruire dei benefici per i numerosi dubbi che ancora attanagliano l’operatività e la burocrazia di ciascuna delle condizioni sopra riportate e che, di fatto, ne impediscono l’utilizzo.

La convenienza rispetto ad altre agevolazioni
Dal raffronto tra le due norme la Circolare ha rilevato come, già in prima analisi, appaia evidente uno squilibrio di base.

La Legge n.407/1990, infatti, prevede che, in caso di assunzioni con contratto a tempo indeterminato di lavoratori disoccupati, sospesi o in Cig da almeno ventiquattro mesi, i contributi previdenziali ed assistenziali siano applicati nella misura del 50 % per un periodo di trentasei mesi.

Inoltre, qualora tali assunzioni siano effettuate da imprese operanti nelle zone svantaggiate del Mezzogiorno, ovvero da imprese artigiane, lo sgravio predetto è elevato al 100% della contribuzione totale a carico del datore di lavoro.

Detto ciò, occorre precisare che, mentre la soppressione dei benefici contributivi dell’art.8, comma 9, della Legge n.407/1990 sarà definitiva, gli sgravi contributivi previsti dall’art.12 della Legge di Stabilità 2015, concessi per le assunzioni decorrenti dal prossimo 1° gennaio, sarà invece limitata ai contratti  a tutele crescenti stipulati entro il 31 dicembre 2015.

Di conseguenza, a partire dal 1° gennaio 2016, non vi sarà alcuno sgravio contributivo che possa incentivare le assunzioni a tempo indeterminato.

In particolare, i datori di lavoro maggiormente penalizzati dalla  soppressione della Legge n.407/1990 saranno gli artigiani e quelli operanti nelle zone del mezzogiorno, i quali, di certo, non potranno dirsi compensati  dalla nuova riduzione contributiva per i  contratti a tutele crescenti.

Si riportano in allegato la tabella relativa al confronto tra le due agevolazioni in commento e gli esempi della diversa quantificazione delle agevolazioni  predisposti dalla Fondazione Studi Consulenti del Lavoro.

Valerio Pollastrini
 

ALLEGATI

Tabella: Confronto

Confronto
Legge 407/90
Legge Stabilità 2015
Entità dello sgravio
50% altri;
100% Mezzogiorno e Artigiani
100%;
Sono dovuti però i premi Inail
Durata
3 anni
3 anni
Arco temporale di applicazione
Senza limiti
Solo 2015
Importo max fruibile
Senza limiti
Max 8.060,00 € annui
Requisito lavoratore
Disoccupazione
Almeno 24 mesi
Assenza di contratti di lavoro a tempo indeterminato negli ultimi 6 mesi
Ripetibile per il singolo lavoratore
Si
No

 
Esempio di calcolo 

Assunzione dal 2 gennaio 2015
Retribuzione lorda annuale = 19.600,00 €
 
Imponibile contributivo: 19.600,00 €
Aliquota contributiva Inps a carico del datore di lavoro: 30,88%
Aliquota Inail a carico del datore di lavoro: 130 per mille

 
Sgravio ex L.407/90 datori di lavoro artigiani e zone svantaggiate:

Sgravio totale annuo -  € 6.052,48 (INPS) + 2.548 (INAIL) =  8.600,48 €

 
Sgravio ex Legge di Stabilità 2015

Sgravio totale annuo -   6.052,48 € (INPS)

Sgravio totale triennale -  6.052,48 € X 3 anni = 18.157,44 euro

Perdita di autocontrollo sul lavoro - Legittimità del recesso

Nella sentenza n.25015 del 25 novembre 2014, la Corte di Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa irrogato al dipendente che, oltre ad aver scaraventato una scrivania contro un collega,  si era rifiutato di fornirgli assistenza dopo il colpo subito.

La Corte di Appello di Bologna, riformando la sentenza del Tribunale del primo grado,  aveva rigettato l’impugnativa di recesso proposta dal lavoratore.

Per la Corte territoriale, la condotta predetta, confermata dallo stesso ricorrente, sia pure limitatamente al solo lancio del tavolo, risultava dotata d'intrinseca gravità comportamentale che deponeva sfavorevolmente ai fini della correttezza e della regolarità del rapporto di lavoro.

Inoltre, la volontà del ricorrente di non ottemperare alla disciplina aziendale risultava confermata dal secondo addebito, con il quale la società gli aveva contestato di essersi allontanato dal lavoro senza alcuna giustificazione allorché lo stesso  era stato demandato al controllo del personale esterno.

Avverso questa sentenza, il lavoratore aveva proposto ricorso per Cassazione, sostenendo, tra l’altro, che la Corte di Appello avrebbe erroneamente valutato l'elemento soggettivo.

In sostanza, secondo la tesi del ricorrente, la sentenza impugnata non avrebbe tenuto conto  delle circostanze in cui era stata commessa la mancanza.

Nel ritenere infondata tale censura, la Cassazione ha sottolineato come  la Corte territoriale avesse, invero, valutato l'elemento soggettivo, evidenziando la ridotta capacità di autocontrollo del lavoratore nell'ambiente aziendale e, soprattutto, l'intenzionalità con la quale aveva posto in essere le azioni oggetto di contestazione.

Ciò detto, la Suprema Corte ha concluso con il rigetto del ricorso.

Valerio Pollastrini

Garanzia Giovani: lavoro a chiamata e apprendistato esclusi dall’incentivo

Il programma “Garanzia Giovani” ha introdotto un bonus economico in favore delle aziende che assumano con contratto a termine, pari o superiore a 6 mesi, o  a tempo indeterminato ragazzi di età compresa tra i 16 ed i 29 anni.

Nel rispetto dei limiti di durata appena citati, anche le assunzioni a tempo parziale dei suddetti soggetti, con orario pari o superiore al 60% di quello ordinario, consentono l’accesso all’incentivo in commento, così come quelle dei soci lavoratori di cooperativa con contratto di lavoro subordinato.

Il bonus, inoltre, spetta anche nel settore agricolo, nei confronti degli operai agricoli assunti a tempo indeterminato e determinato.

Sempre ai fini dell’accesso all’incentivo nel settore agricolo, ai sensi del Decreto Direttoriale  dell’8 agosto 2014 la prestazione dei lavoratori assunti con contratto a termine (Otd) deve essere svolta senza soluzione di continuità e per un periodo minimo di sei mesi.

In conclusione, occorre ricordare che apprendisti, lavoratori domestici, intermittenti, ripartiti e accessori sono esclusi dal bonus.

Valerio Pollastrini

Illegittimità del c.d. “sciopero delle mansioni”

Nella sentenza n.23672 del 6 novembre 2014, la Corte di Cassazione ha assimilato il rifiuto del lavoratore di svolgere uno dei compiti a cui risulta contrattualmente obbligato all’illegittima fattispecie dello sciopero delle mansioni.

Come è noto, lo sciopero, del quale nel nostro ordinamento non esiste una definizione legale,  si configura, di fatto, nella mancata esecuzione della prestazione lavorativa da parte di una collettività di dipendenti, con corrispondente perdita della relativa retribuzione.

Nell’adempimento di uno sciopero, i lavoratori possono delimitare il mancato svolgimento della prestazione nell’arco di una o più  giornate, ovvero in periodi di tempo inferiori alla giornata, purché, tale ultima ipotesi non intacchi   la c.d. "minima unità tecnico temporale", al di sotto della quale viene meno l’interesse del datore di lavoro all’utilizzo delle energie del dipendente.

A questo proposito,  la giurisprudenza ha esteso  la nozione di sciopero anche alla mancata prestazione dello straordinario, là dove l'astensione si estrinseca nell’arco di una precisa delimitazione temporale relativa a  tutte le attività richieste al lavoratore.

Di contro,  il rifiuto di svolgere solo alcuni tra i compiti che il lavoratore è tenuto ad eseguire configura una ipotesi estranea al diritto di sciopero.

E' il caso del c.d. “sciopero delle mansioni”, comportamento costantemente ritenuto illegittimo dalla giurisprudenza.

Nella vicenda al vaglio della Suprema Corte, un portalettere, in violazione dell'obbligo di sostituzione previsto dal Contratto Collettivo, si era rifiutato di effettuare la consegna della corrispondenza di competenza di un collega assegnatario di altra zona della medesima area territoriale.

Al riguardo, gli ermellini hanno escluso che tale condotta   potesse rientrare nell’astensione dal lavoro straordinario o nell’astensione per un orario delimitato e predefinito.

Nel caso di specie,  il diniego si era risolto, piuttosto,  in un illegittimo  rifiuto di effettuare una delle prestazioni dovute, assimilabile al c.d. “sciopero delle mansioni”, in quanto, tenendo conto dell’insieme delle attività contrattualmente richieste al dipendente, la predetta omissione aveva riguardato solo uno degli obblighi a suo carico. 

Valerio Pollastrini

Con la Legge di Stabilità in arrivo il tetto sulle pensioni d’oro

Con la  Legge di Stabilità, in arrivo per il 2015 un tetto alle c.d. “pensioni d’oro”.

La Commissione Bilancio della Camera, infatti, ha approvato l'emendamento proposto dal Governo per modificare quanto disposto dalla Legge Fornero in merito alle prestazioni pensionistiche in favore degli alti funzionari di Stato.

In sostanza, la novità prevede che con il passaggio al nuovo sistema contributivo l’importo degli assegni non potrà essere superiore a quello ottenuto  con l’applicazione del vecchio sistema retributivo.

Il tetto così prefissato si applicherà su tutti i trattamenti pensionistici, compreso quelli già liquidati, e decorrerà dal 2015.

Valerio Pollastrini

sabato 22 novembre 2014

Rendita ai superstiti da perdita del contributo economico - Il requisito della "vivenza a carico"

Nella sentenza n.24517 del 18 novembre 2014, la Corte di Cassazione ha chiarito quando può dirsi configurato il requisito della “vivenza a carico”, presupposto necessario ai superstiti del dipendente deceduto in seguito ad infortunio sul lavoro per ottenere dall’Inail la rendita da perdita del contributo economico.

Nel caso di specie, i genitori di un lavoratore deceduto in un incidente stradale avvenuto mentre si recava in azienda, avevano richiesto all’Inail  la rendita per il mancato contributo economico precedentemente fornito dal figlio per il loro mantenimento.

Il giudice del merito, dopo aver accertato che l’incidente in cui era rimasto vittima il dipendente rientrava nella fattispecie del c.d. “infortunio in itinere”, aveva, tuttavia, respinto la richiesta dei ricorrenti.

Investita della questione, la Cassazione ha ricordato che, secondo l'art.85 del D.P.R. n.1124/1965 (1) il requisito della vivenza a carico, indispensabile ai fini del riconoscimento della rendita in commento, risulta configurato qualora “gli ascendenti si trovino senza mezzi di sussistenza autonomi sufficienti e al mantenimento di essi concorreva in modo efficiente il defunto”.

Gli ermellini hanno quindi precisato che, dalla corretta interpretazione della  norma citata, “la vivenza a carico” risulta configurata unicamente al concomitante verificarsi dei seguenti  due elementi:

-         il concorso efficiente del lavoratore deceduto al mantenimento degli ascendenti attraverso aiuti economici che, “per la loro costanza e regolarità, costituivano un mezzo normale, anche se parziale, di sostentamento”;

-          la mancanza, per gli ascendenti, di sufficienti mezzi di sussistenza.

Tuttavia, occorre aggiungere che il legislatore non ha delineato con precisione i limiti della “sufficienza”, riservando, di fatto, al giudice l'onere di effettuarne un valutazione in base al singolo caso.

In sostanza, per la sussistenza del diritto alla rendita, il necessario requisito della dipendenza economica assume una rilevanza diretta nei confronti del lavoratore defunto, al punto che, a tal fine,  non può essere attribuito un valore sufficiente alla dimostrazione della sola circostanza della  convivenza dei superstiti con l'assicurato o il parziale loro mantenimento da questi ottenuto.

Valerio Pollastrini

 
1)      – Testo Unico sulle Assicurazioni Malattie Professionali nell'Industria;

Enti Pubblici Economici - Divieto di conversione del contratto a termine nullo in rapporto a tempo indeterminato

Nella sentenza n.19112 del 10 settembre 2014, la Corte di Cassazione ha precisato che il generale divieto, sancito nell’ambito del pubblico impiego, di conversione a tempo indeterminato del rapporto a termine del quale sia accertata la nullità, risulta applicabile anche alle aziende di trasporti pubblici.

Nel caso di specie, la Corte di Appello di Cagliari aveva accolto  l’impugnazione proposta dall’Azienda Trasporti Pubblici avverso la sentenza con la quale il Tribunale di Sassari  aveva dichiarato la nullità del termine apposto al contratto di lavoro intercorso con dipendente e, riformando tale decisione, aveva rigettato la domanda del lavoratore volta alla conversione a tempo indeterminato dei contratti a termine dichiarati nulli.

La Corte del merito, in particolare, aveva ritenuto ancora operante nei confronti degli Enti Territoriali, delle rispettive aziende e dei consorzi (1), il divieto di conversione dei rapporti a termine nulli.

Ciò nonostante, il giudice dell’appello, aveva accolto la domanda di risarcimento del danno in base ai principi affermati dalla Corte di Giustizia Europea con riferimento alle finalità dell’accordo quadro di protezione dei lavoratori dalla instabilità dell’impiego.

Avverso questa sentenza, il lavoratore aveva proposto ricorso per Cassazione, sostenendo che la A.T.P., in quanto Ente Pubblico Economico, non fosse obbligata per legge ad effettuare l’assunzione del personale  mediante concorso pubblico e, pertanto, aveva censurato l’impugnata sentenza nella parte in cui aveva negato la conversione del contratto, dichiarato nullo nel termine, in contratto a tempo indeterminato.

Secondo la tesi del ricorrente, in sostanza, in caso di accertata nullità del termine di un rapporto di lavoro, un Ente Pubblico Economico  sarebbe soggetto, sul piano sanzionatorio, all’obbligo di conversione del contratto disposto dal D.Lgs. n.368/2001.

Investita della questione, la Cassazione ha ribadito che, in ragione del divieto posto dall’art.36, secondo comma, del D.Lgs. n.165/2001, ai rapporti in esame, in caso di acclarata nullità del termine apposto al contratto, non può essere applicata la conversione a tempo indeterminato.

Secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità (2), infatti, la disciplina generale che regola l'assunzione del personale a termine da parte di Province, Comuni, Consorzi e rispettive aziende è dettata dall’art.5, commi 15 e 17,  del D.L. n.702/1978 (3) che, in particolare, stabilisce che l'assunzione di personale straordinario da parte dei predetti Enti possa avvenire per sopravvenute esigenze eccezionali e per un periodo non superiore a novanta giorni (nell'anno solare): con risoluzione di diritto del rapporto di lavoro al compimento del periodo e nullità, pure di diritto, dei provvedimenti di assunzione temporanea o di conferma in servizio adottati in violazione delle disposizioni dello stesso articolo.

La giurisprudenza richiamata, inoltre, precisa  che la disciplina in vigore, a norma dell'art.8 del D.L. n.153/1980 (4),  regola in modo completo ed esauriente l'assunzione del personale a termine da parte degli Enti suindicati (pubbliche amministrazioni o imprenditori pubblici), così escludendo che le assunzioni temporanee effettuate dai medesimi siano soggette alla disciplina privatistica della Legge n.230/1962: con la conseguenza, in particolare, della insuscettibilità di conversione delle assunzioni temporanee in rapporti a tempo indeterminato, essendo per questi richiesto un concorso o una prova pubblica selettiva, salva, peraltro, l'applicabilità dell'art.2126 c.c. sulle prestazioni di fatto eseguite in violazione di legge.

A questo riguardo, gli ermellini hanno ricordato che il divieto di conversione in oggetto risponde a criteri di ragionevolezza ed è ispirato alla tutela di superiori interessi pubblici generali, per la concorrenza delle esigenze di risanamento della finanza locale e del principio di imparzialità, stante l'obbligo di assumere il personale a mezzo di pubblico concorso.

In conclusione, la Suprema Corte, nel rigettare il ricorso del lavoratore ha precisato che alle aziende di trasporti pubblici, quand’anche il loro statuto preveda la possibilità di assumere personale con una modulazione del rapporto di lavoro di natura privatistica, deve essere applicata la disciplina generale dettata dall’art.5, commi 15 e 17,  del D.L. n.702/1978, con esclusione della conversione dei rapporti da tempo determinato a tempo indeterminato.

Dalla accertata nullità di diritto dei provvedimenti di assunzione temporanea in violazione dei limiti di tale legge, pertanto, discende unicamente l’applicazione dei principi di diritto comune in tema di responsabilità da inadempimento, che attribuiscono al lavoratore il diritto al risarcimento del danno.

Valerio Pollastrini

1)      - di cui all’art.5 del D.L. n.702/1978, convertito nella Legge n.3/1979, e all’art.8 del D.L. n.153/1980, convertito nella Legge n.299/1980;
2)      - Cass., Sentenza n.6699 del 2 maggio 2003; Cass., Sentenza n.13528 del 16 settembre 2002; Cass., Sentenza n.14262 del 17 dicembre 1999; Cass., Sentenza n.6566 del 3 dicembre 1988; Cass., Sentenza n.3724 del 1° giugno 1988; Cass., Sentenza n.2059 del 26 febbraio 1988; Cass., Sentenza n.696 del 2 febbraio 1985;
3)      -  convertito, con modifiche, nella Legge n.3/1979;
4)      - convertito nella Legge n.299/1980;

Cessione d’azienda – Credito da TFR – Sussistenza della responsabilità solidale

Nella sentenza del 17 settembre 2014, la Corte di Appello di Milano ha precisato che in caso di cessione di azienda, il datore di lavoro cedente rimane obbligato nei confronti dei dipendenti che hanno proseguito il rapporto  con l’impresa cessionaria, anche per la parte del trattamento di fine rapporto maturato sino all'atto del trasferimento.

Con distinti ricorsi, alcune ex dipendenti, in qualità di operaie presso un’impresa ceduta nel giugno 2008 ad altra titolare con trasferimento d'azienda, avevano proposto appello avverso le sentenze che avevano accolto l'opposizione ai decreti ingiuntivi emessi in loro favore ed avanzati dal primo datore di lavoro, al quale era stato intimato il pagamento del TFR maturato presso di esso.

Il giudice del primo grado, infatti, aveva escluso la solidarietà per i crediti relativi al TFR, atteso che questo emolumento era maturato, entrando nel patrimonio delle lavoratrici, solo successivamente al trasferimento di azienda ed in occasione della risoluzione del loro rapporto, avvenuta per dimissioni nel luglio 2008.

Nell'atto di impugnazione le lavoratrici avevano lamentato l'erroneità delle decisioni che non avevano seguito il più recente orientamento della Suprema Corte, secondo cui il datore di lavoro cedente rimane obbligato nei confronti del cessionario per la quota maturata nel periodo di rapporto precedente, riportandosi al più recente orientamento della Cassazione che, in fattispecie analoghe, aveva ritenuto sussistere tale solidarietà (1) .

Di contro, la società convenuta aveva eccepito che, in simili casi, la solidarietà non potrebbe trovare applicazione perché il fatto costitutivo della maturazione del credito sarebbe la risoluzione del rapporto, credito che, pertanto, sorgerebbe solo quando il rapporto si estingue.

Investita della questione, la Corte milanese ha ritenuti gli appelli fondati.

Nella premessa, la Corte del merito ha osservato che il trasferimento di azienda avvenuto nel maggio 2008 non risultava oggetto di contestazione tra le parti, così come il passaggio delle appellanti alle dipendenze della nuova azienda  sino alla cessazione del rapporto nel 2009.

Parimenti, dagli atti non risultava provato che la cessionaria avesse versato alle lavoratrici il pagamento del TFR loro dovuto  sino al maggio 2008.

Sul punto, il Tribunale di primo aveva seguito l'orientamento della Cassazione, precedente a quello cui avevano fatto riferimento le appellanti, che  riteneva unico debitore il cessionario, in ragione della maturazione del TFR solo all'atto della risoluzione del rapporto di lavoro, pacificamente verificatasi dopo la cessione.

Tuttavia, il giudice dell’appello ha ritenuto di adeguarsi all'orientamento più recente della Cassazione, espresso con la sentenza n.19291/2011 e divenuto, nel frattempo, maggioritario (2), secondo il quale, essendo il TFR una retribuzione differita, in caso di cessione di azienda soggetta al regime di cui all'art.2112 c.c., il datore di lavoro cedente rimane obbligato nei confronti del lavoratori dipendenti che hanno proseguito il rapporto di lavoro con l’impresa cessionaria, per la parte di credito TFR maturato sino all'atto del trasferimento.

In sostanza,  l’orientamento predetto trae le proprie basi dal fatto che il meccanismo dell'accantonamento "permette di ravvisare diritti soggettivi del lavoratore anche nel corso del rapporto, tutelati sia con l'azione di mero accertamento, sia con azione di condanna alle anticipazioni previste dall'art.2110 c.c., maturando il TFR anno per anno, da alcuni configurata appunto come quota differita della retribuzione, con carattere di corrispettività tra prestazione lavorativa e controprestazione dovuta dal datore di lavoro che della stessa abbia beneficiato, sicché quest'ultimo anche in ragione di tale nesso di sinallagmaticità , non può non essere il primo soggetto obbligato a corrispondere la quota di retribuzione".

In proposito, la Suprema Corte aveva precisato, altresì,  che il diritto al Tfr matura in ragione dell'esecuzione della prestazione, solo diventando esigibile, all'atto della risoluzione del rapporto.

Conseguentemente, il datore di lavoro cedente è obbligato, al momento della risoluzione del rapporto , successivo al trasferimento stesso, per la quota maturata dal dipendente nel periodo di lavoro reso alle sue dipendenze.

Il mancato pagamento di tale parte di TFR da parte del cessionario, che all'atto della cessione ha ottenuto le relative somme dal cedente, non libera la debitrice nei confronti delle lavoratrici creditrici, in virtù del principio di solidarietà di cui all'art.2112 c.c.

Per tutte le richiamate considerazioni, la Corte di Appello ha dichiarato che le sentenze impugnate devono  essere riformate, con conferma dei decreti ingiuntivi indicati in dispositivo.

Valerio Pollastrini

1)      - Cass., Sentenza n.19291/2011;
2)      - Cass., Sentenza n.11479/2013;  Cass., Sentenza n.20837/2013;

Superamento del periodo di comporto - Licenziamento – Revoca – Rinnovazione dell’atto alla comunicazione del prolungamento della malattia

Nella sentenza n.24525 del 18 novembre 2014, la  Corte di Cassazione ha ribadito che dalla nullità di un licenziamento discende la possibilità di rinnovazione dell’atto sulla base di una situazione diversa e nuova.

Nel caso di specie, la Corte di Appello di Genova aveva confermato la decisione con la quale  il Tribunale di Chiavari  aveva rigettato la domanda di un dipendente diretta ad ottenere la declaratoria di inefficacia della revoca del licenziamento irrogatagli dal datore di lavoro in data 25 maggio 2009, nonché di illegittimità del licenziamento intimatogli in data 30 aprile 2009, con la condanna dell’azienda alla sua reintegrazione in servizio, nonché al risarcimento dei danni.

Nella premessa, la Corte territoriale aveva riassunto i fatti di causa nei seguenti termini:

a)     il lavoratore, in aspettativa per malattia fino al 1° maggio 2009, aveva ricevuto una lettera di licenziamento per superamento del periodo di comporto datata 30 aprile 2009; in data 25 maggio 2009 la società gli aveva inviato altra lettera con cui aveva precisato che licenziamento del 30 aprile precedente doveva ritenersi efficace solo dal momento in cui il lavoratore ne aveva avuto comunicazione (6 maggio 2009);

b)    in ogni caso, lo aveva revocato e, contestualmente, ne aveva intimato un altro, fondato sul superamento del periodo di comporto per effetto della comunicazione scritta, inviatagli dal lavoratore, di prolungamento del suo stato di malattia sino al 4 giugno 2009.

Ciò premesso, la Corte del merito aveva ritenuto che:

-         il primo licenziamento era nullo perché intimato durante il periodo di malattia, e prima della scadenza del periodo di comporto;

-         la revoca del licenziamento disposta con la missiva del 25 maggio 2009 doveva ritenersi improduttiva di effetti, in quanto non accettata dal lavoratore;

-         in conseguenza della nullità del primo licenziamento, era legittimo l'esercizio da parte della datrice di lavoro del nuovo potere di recesso, fondato sul definitivo superamento del periodo di comporto.

Avverso questa  sentenza, il lavoratore aveva proposto ricorso per Cassazione, deducendo che, poiché la Corte aveva ritenuto inefficace la revoca in quanto da egli non accettata, ogni ulteriore indagine avrebbe dovuto ritenersi superflua essendosi il rapporto ormai esaurito ed essendosi così consumatosi il potere risolutorio del datore di lavoro.

In sostanza, il ricorrente aveva sostenuto che tutti gli atti successivi al (primo) licenziamento fossero privi di rilievo, compresa la sua missiva  con la quale aveva comunicato all’azienda la prosecuzione del periodo di aspettativa, avendo il datore di lavoro già consumato il potere risolutorio con riferimento al superamento del periodo di comporto.

A ciò, il dipendente aveva aggiunto che l'ipotesi in esame non configurerebbe un caso di nullità del licenziamento ma di illegittimità, con la conseguente sussistenza del suo diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro.

Investita della questione,  la Cassazione ha rigettato il ricorso, in quanto infondato.

Nel richiamare preliminarmente i principi più volte espressi dalla giurisprudenza di legittimità, gli ermellini hanno osservato che, invero, in caso di licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto, ma anteriormente alla scadenza di questo, l'atto di recesso è nullo per violazione di norma imperativa, di cui all'art.2110 c.c., che vieta il licenziamento stesso in costanza della malattia del lavoratore, e non già temporaneamente inefficace, con differimento dei relativi effetti al momento della scadenza: il superamento del comporto costituisce, infatti, ai sensi del citato art.2110 c.c., una situazione autonomamente giustificatrice del recesso, che deve, perciò, esistere già anteriormente alla comunicazione dello stesso, per legittimare il datore di lavoro al compimento di quest'atto, ove di esso costituisca il solo motivo (1).

Ciò premesso, la Suprema Corte ha sottolineato la propria intenzione di dare continuità ad un orientamento secondo il quale dalla nullità del licenziamento discende la possibilità di rinnovazione dell’atto.

A tale proposito, la Corte di legittimità ha osservato che detta rinnovazione, risolvendosi nel compimento di un negozio diverso dal precedente, esula dallo schema dell'art.1423 c.c., il cui intento è quello di  impedire la sanatoria di un negozio nullo con effetto ex lune e non a comprimere la libertà delle parti di reiterare la manifestazione della propria autonomia negoziale (2).

In particolare, la Cassazione ha fatto appello alla Sentenza n.6773 del 19 marzo 2013, con la quale la Corte stessa aveva confermato la giurisprudenza secondo cui è consentita la rinnovazione del licenziamento disciplinare nullo per vizio di forma (purché siano adottate le modalità prescritte, omesse nella precedente intimazione) in base agli stessi motivi sostanziali determinativi del precedente recesso, anche se la questione della validità del primo licenziamento sia ancora sub iudice.

Tornando sulla vicenda in questione, gli ermellini hanno poi aggiunto  che, secondo quanto emerso dagli atti e non risultato  oggetto di contestazione tra le parti, il secondo licenziamento era stato intimato sulla base di una situazione diversa e nuova rispetto alla precedente, costituita dalla comunicazione di un ulteriore periodo di malattia del lavoratore, che aveva determinato il definitivo superamento del periodo di comporto.

Di conseguenza, la continuità e la permanenza del rapporto, non interrotto dall'atto di recesso nullo, per un verso avevano reso privo di effetto l'atto di revoca del primo licenziamento intimato dalla società e, per altro verso, rendevano giustificata l'irrogazione di un secondo recesso, in quanto fondato su una nuova e diversa ragione giustificatrice, dalla quale solamente, in mancanza di tempestiva impugnazione, era derivato l'effetto estintivo del rapporto (3).

Per tutte le considerazioni predette, la Cassazione ha concluso con il rigetto del ricorso e la conseguente condanna del lavoratore al pagamento delle spese processuali, liquidate in 4.000,00 € per compensi professionali, 100,00 € per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed agli altri accessori di legge.

Valerio Pollastrini

 
1)      - Cass., Sentenza n.9869 del 21 settembre 1991; Cass., Sentenza n.12031 del 26 ottobre 1999;
2)      - In tal senso, Cass., Sentenza n.23641 del 6 novembre 2006;
3)      - Cass., Sentenza n.6055 del 6 marzo 2008; Cass., Sentenza n.19104 del 9 agosto 2013;