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lunedì 21 luglio 2014

Integrazione e disabilità, in Sicilia il mare è per tutti grazie al progetto “Mia”

E’ ripartito, in questi giorni, il progetto “Mondello M.I.A. – Mare, integrazione e accessibilità”, promosso dalla sede Inail di Palermo, in collaborazione con il Comune, la Federazione italiana nuoto paraolimpico, il Cip Sicilia e l’associazione “Ombelico del mondo”, finalizzato alla creazione di  un lido accessibile ai disabili e assistito da istruttori per l'orientamento sportivo.

Da quest'anno il programma è stato esteso anche ad altre spiagge dotate di ausili per la mobilità.

Non solo, infatti, sono  aumentati gli arenili  dotati di strutture adatte ad accogliere chi ha subito un infortunio ed ha problemi di mobilità, ma sono stati incrementati anche gli ausili che si troveranno sulla spiaggia.

A luglio e a settembre, dalle 9 alle 18, i lidi saranno   dotati di attrezzature ed ausili adatti allo scopo, con l’assistenza e l’orientamento sportivo dei soggetti con disabilità a cura di istruttori di nuoto della Finp.

Quest'anno sono state significativamente aumentate le passerelle e sono stati messi a disposizione degli utenti 30 lettini e tre carrozzine acquatiche.

Giunto  alla sua quarta edizione, il progetto mira ad  offrire una spiaggia munita di tutti i servizi, fruibili gratuitamente dalle persone con disabilità, al fine di favorire l’autonomia e la partecipazione alla vita sociale di bambini, giovani e adulti.

L’Inail fornirà una carrozzina job, vale a dire una sedia adatta al trasporto al mare dei disabili.

Un’analoga struttura organizzativa verrà predisposta anche nelle città di   Catania, Ragusa, Messina ed Enna.

Valerio Pollastrini

Accesso abusivo alle e-mail dei colleghi

Nell’Ordinanza del 29 aprile 2014, il Tribunale di Napoli ha chiarito le  modalità imposte all’azienda che voglia eseguire delle  verifiche informatiche sull’operato dei  dipendenti.

Il caso di specie è quello del licenziamento intimato ad un lavoratore  per accesso abusivo alle mail aziendali.

Il datore di lavoro aveva rispettivamente contestato al dipendente l’utilizzo illecito degli strumenti elettronici aziendali, l’accesso abusivo alle mail  di alcuni colleghi e l’acquisizione di informazioni, dati e allegati riservati.

Tali fatti erano stati accertati dalle verifiche della rete informatica della ditta, eseguite dalla divisione sistemi informativi in seguito al verificarsi di alcune anomalie.

Le verifiche a campione sui log delle web mail, infatti,  avevano rilevato che dal computer assegnato al  dipendente  erano state effettuate numerose connessioni alla posta aziendale di altri colleghi.

Dopo averne disposto la sospensione cautelare dal servizio e dalla retribuzione, al termine del procedimento disciplinare l’azienda aveva licenziato il lavoratore per giustificato motivo soggettivo, ritenendo irreparabilmente leso, a causa delle condotte oggetto di contestazione,  il vincolo fiduciario posto alla base del rapporto.

Nell’impugnare il recesso, il dipendente aveva adito il giudice del lavoro, chiedendo la condanna della società alla sua reintegrazione nel posto di lavoro, oltre al pagamento del risarcimento del danno subito.

In particolare, il dipendente aveva contestato l’intera procedura di acquisizione dei dati informatici compiuta dall’azienda, nonché la riconducibilità degli accessi illegittimi al proprio pc e alla propria persona.

Nel costituirsi in giudizio, l’azienda aveva  allegato alcuni file di log che, giova ricordare, sono file nei quali vengono  registrate, ad esempio,  le attività compiute da un’applicazione, da un server, o da un utente.

Attraverso tale strumento, ad ogni collegamento ai server vengono scritte informazioni relative all’accesso dell’utente, quali indirizzo IP, data, ora, pagina richiesta, login e account.

La società aveva allegato   due diverse tipologie di file di log: quelli, prodotti in copia su cd, del DHCP server del sistema Windows Microsoft Server per il controllo dell’accesso dei pcp sulla rete aziendale e quelli del sistema di posta Lotus Dominio Server per il controllo dell’accesso alle caselle sui sistemi di posta che, a causa della loro dimensione, non erano stati prodotti in giudizio, ma risultavano custoditi presso l’azienda.

Investito della questione, il Tribunale ha disposto la nomina di un CTU,  al quale era stata richiesta un’analisi sulla natura e la provenienza sia dei dati prodotti che di quelli che, seppure non prodotti, risultavano disponibili presso i server dell’azienda.

Nella relazione, il CTU ha premesso  di aver  recuperato solo una copia dei log,  senza poter  verificarne la conservazione sui sistemi di origine.

I sistemi aziendali, infatti, prevedono un sistema di sovrascrittura dei file di log originari che, pertanto, erano andati  distrutti.

Si tratta di dati non  attendibili, né affidabili, in quanto l’azienda non aveva adottato adeguate misure per attestare l’immodificabilità ed attendibilità dei file di log.

Nel momento in cui era stata effettuata la copia dei log preposti a ricollegare al pc del ricorrente l’indirizzo Ip utilizzato,  il contenuto del file non era stato sottoposto a nessun controllo di integrità in grado di attestare l’identità assoluta con il dato nel suo contenuto originale, così come prodotto dal sistema.

In assenza di tali garanzie, il dato dei file di log sarebbe potuto essere alterato.

Il CTU, inoltre, ha rilevato analoghe criticità anche per la tipologia di file di log che avevano  ricollegato gli accessi illegittimi  all’indirizzo Ip del ricorrente, con una differenza connessa alla struttura del dato nella sua complessità tale che, anche nell’impossibilità di stabilirne la congruenza effettiva con i dati nativi, avrebbe potuto fondare l’ipotesi di una bassa probabilità di alterazione del dato copiato.

Per poterne stabilire l’esatta identicità con il dato originale,  l’azienda avrebbe dovuto adottare specifiche policy di conservazione della prova digitale, attraverso la produzione di log firmati digitalmente e marcati temporalmente.

In mancanza del sopra citato accorgimento, il CTU ha avanzato la reale possibilità di alterazione del contenuto del file, vista la copia dello stesso  in semplice formato di testo.

In sostanza, alla luce delle risultanze della CTU, è venuta a mancare la prova inconfutabile del contenuto del file di log, dal momento che il processo di raccolta delle prove da parte dell’impresa risultava privo degli elementi di attendibilità.

Conseguentemente, il Tribunale ha osservato che  il datore di lavoro non avesse provato i fatti storici degli accessi e la loro riferibilità al dipendente, sottolineando come le copie dei file di log non fossero state estratte con modalità tali da garantirne, in caso di contestazione, l’attendibilità, la provenienza e la immodificabilità.

Il giudice, pertanto,  ha ritenuto il licenziamento illegittimo, non avendo il datore di lavoro  provato in maniera certa gli accessi e la riconducibilità degli stessi alla responsabilità del ricorrente.

In particolare, l’azienda aveva fondato il recesso sui log relativi all’IP, ma non su quelli inerenti agli accessi illegittimi, desumibili dall’incrocio con gli altri log del sistema Lotus dominio.

Accolte dunque le domande del dipendente, il Tribunale  ha ordinato all’azienda  la sua reintegrazione nel posto di lavoro, oltre al pagamento del risarcimento del danno in favore dello stesso, commisurato alle retribuzioni globali di fatto dal giorno del licenziamento a quello di effettiva reintegra, con l’aggiunta degli interessi legali, della rivalutazione delle singole scadenze al saldo, del pagamento degli oneri previdenziali e della refusione delle spese processuali.

Valerio Pollastrini

Processo tributario - Valore probatorio delle dichiarazioni dei lavoratori

Nella sentenza n.16462 del 18 luglio 2014, la Corte di Cassazione ha affermato che il divieto di produrre prove testimoniali nell’ambito del processo tributario  non si applica nel caso in cui le dichiarazioni dei lavoratori vengano riportate nel verbale redatto dalla Guardia di Finanza.

Il caso di specie è quello che ha riguardato una società, ai danni della quale era stato emesso un avviso di accertamento  per omesse ritenute d'acconto sui compensi corrisposti a 32 dipendenti non iscritti nei libri obbligatori

Dopo che nel primo grado di giudizio era stato respinto il ricorso dell’azienda, la Commissione Tributaria Regionale ne aveva successivamente accolto l’appello, in quanto, ai sensi  dell’art.7 del D.lgs. n.546/1992, nel processo tributario le dichiarazioni dei terzi, raccolte in sede di verifica fiscale, in assenza di ulteriori riscontri documentali, non assumono efficacia probatoria.

L’Amministrazione, invece, non aveva offerto alcun rilievo documentale in grado di dimostrare la sussistenza dei contestati rapporti di lavoro  e, conseguentemente, del relativo inadempimento degli obblighi gravanti sul sostituto d'imposta.

Nel verbale della Guardia di Finanza, così come nell’ulteriore documentazione prodotta in giudizio, infatti,  mancava qualsiasi elemento che rinviasse a tali rapporti.

Dal momento che l’accertamento era stato basato unicamente sulle dichiarazioni dei presunti lavoratori e sull'esame di provvedimenti giudiziari civili, di dubbia interpretazione sotto il profilo fiscale, la Commissione Tributaria Regionale aveva accolto il ricorso del contribuente.

Nell’impugnare questa pronuncia, l’Agenzia delle Entrate aveva contestato la ritenuta inammissibilità delle dichiarazioni rese dai terzi, a sostegno delle contestazioni in materia dì omessa ritenuta alla fonte su compensi a lavoratori, non registrati nei libri contabili obbligatori, sostenendo che la norma sopra richiamata intenda colpire solamente  le prove testimoniali formate nel processo tributario, senza negare ad esse la valenza di semplici indizi da vagliare circa la loro fondatezza.

Investita della questione,  la Suprema Corte ha precisato che, nel processo tributario, le dichiarazioni del terzo, acquisite dalla Guardia di Finanza  e riportate nel  verbale di constatazione, da cui sia sfociato  l'avviso di accertamento, assumono valore indiziario, concorrendo a formare il convincimento del giudice unitamente ad altri elementi.

Le suddette dichiarazioni, in sostanza,  danno luogo a presunzioni semplici che, nonostante il divieto di prova testimoniale, risultano generalmente ammissibili nel contenzioso tributario.

La Cassazione ha poi sottolineato che l’inammissibilità del giuramento e della prova testimoniale (1), limita  i poteri del giudice tributario e non quelli degli organi di verifica.

Tale limitazione, pertanto, assume valore  soltanto per la diretta acquisizione, da parte del giudice stesso, della narrazione dei fatti della controversia compiuta da un terzo, mentre le dichiarazioni dei terzi raccolte da verificatori o finanzieri e inserite nel processo verbale di constatazione hanno natura di mere informazioni acquisite nell'ambito di indagini amministrative e, dunque, risultano pienamente utilizzabili quali elementi di convincimento.

Per le richiamate considerazioni, la Suprema Corte ha concluso con l’accoglimento del ricorso dell’Agenzia delle Entrate.

Valerio Pollastrini

 
(1)   – Ai sensi dell'art.7, comma 4, del  D.lgs. n.546/1992;

Infortunio in azienda – Responsabilità del direttore dei lavori

Nella sentenza n.3717 del 28 gennaio 2014, la  Corte di Cassazione ha affermato che il direttore dei lavori è responsabile dell’infortunio nel caso  gli sia stato contrattualmente  affidato il compito di sovrintendere ai lavori con possibilità di impartire ordini agli operai o quando si inserisce in concreto nei lavori stessi.

Nel caso di specie, il Tribunale aveva condannato il responsabile dei lavori di un cantiere edile  alla pena di 3.000,00 € di ammenda,  per aver omesso di redigere durante la progettazione dell'opera il piano di sicurezza e coordinamento (1).

L’imputato si era quindi rivolto alla Suprema Corte, sostenendo che la norma violata indicasse, quale destinatario del suddetto obbligo, il coordinatore per la progettazione e non il responsabile dei lavori.

Investita della questione, la Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso, ribadendo che l’art. 4 del D.Lgs n.494 del 14 agosto 1996 (2) sanciva l’obbligo del coordinatore per la progettazione di redigere il piano di sicurezza e di coordinamento (3) durante la progettazione dell'opera e comunque prima della richiesta di presentazione delle offerte.

Gli ermellini hanno ricordato che la suddetta previsione normativa è stata  replicata nell’art.91, comma 1 del  D.Lgs. n.81  del   9 aprile 2008 (4).

La suprema Corte, inoltre, ha precisato l’art.158 del D. Lgs. n. 81/2008, rubricato "Sanzioni per i coordinatori" (5), individua quale soggetto attivo del reato, il "coordinatore per la progettazione" e cioè il coordinatore in materia di sicurezza e di salute durante la progettazione dell'opera, assoggettandolo, in particolare, alla pena dell'arresto da tre a sei mesi o dell'ammenda da 2.500 a 6.400 euro (6)  per la violazione dell'articolo 91, comma primo.

La Cassazione ha poi sottolineato come anche l'abrogata norma sanzionatoria, contenuta nel D.Lgs. n.494/1996, individuasse il coordinatore per la progettazione quale soggetto attivo del reato di specie, sanzionandolo, in caso di violazione, con la pena dell'arresto da tre a sei mesi o con l'ammenda da lire tre milioni a lire otto milioni.

Nell’impugnata sentenza il ricorrente era stato invece qualificato nel capo d'imputazione e ritenuto responsabile nella sua qualità di "responsabile dei lavori", figura individuata dall’art.89, comma 1, lett. e), del D.Lgs. n.81/2008 (7) come "soggetto che può essere incaricato dal committente per svolgere i compiti ad esso attribuiti dal presente decreto”.

La Cassazione ha quindi concluso ricordando come, secondo il consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità, il direttore dei lavori è responsabile dell'infortunio quando gli viene affidato il compito di sovrintendere all'esecuzione dei lavori, con la possibilità di impartire ordini alle maestranze, sia per convenzione, cioè per una particolare clausola introdotta nel contratto di appalto, sia quando, per fatti concludenti, risulti che egli si sia in concreto ingerito nell'organizzazione del lavoro.

Per tutte le richiamate considerazioni, la Suprema Corte ha annullato la sentenza del merito senza rinvio per insussistenza del fatto, in quanto il reato contestato non poteva essere ascritto   al responsabile dei lavori, ma solo al coordinatore per la progettazione.

Valerio Pollastrini

 
(1)   – Fattispecie di reato prevista dall’art.4, comma 1, e dall’art.21, comma 1, del D.Lgs. n.494/1996;
(2)   - Abrogato dall’art.304 del D.Lgs. n.81/2008;
(3)   - Di cui all'art. 12, comma 1, del D.Lgs n.494/1996;
(4)   -  Recante attuazione dell’art.1 della  Legge n.123 del 3 agosto 2007, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro;
(5)   – Sostituito dal D.Lgs. n.106/2009;
(6)   - Aumentata nella misura del 9,6% a decorrere dal primo luglio 2013, per effetto del D. L. n.69/2013;
(7)   – Precedentemente contemplata nell'abrogato art.2, comma 1, lett.c;

Licenziamento disciplinare in assenza del codice disciplinare

Nella sentenza n.16381 del 17 luglio 2014, la Corte di Cassazione ha ribadito che, in presenza di una  giusta causa, il licenziamento è legittimo anche se irrogato da un’azienda priva del codice disciplinare.

Il primo comma dell’art.7 dello Statuto dei lavoratori dispone che  le norme disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata ed alle procedure di contestazione delle stesse, devono essere portate a conoscenza dei dipendenti mediante affissione in luogo accessibile a tutti.

Nel caso di specie, un lavoratore, licenziato per giusta causa dall’Azienda Ospedaliera-Universitaria degli Ospedali Riuniti, aveva impugnato recesso in quanto irrogatogli in assenza del codice disciplinare aziendale.

In particolare, al dipendente erano state contestate, rispettivamente, le violente invettive pronunciate contro un collega, la mancata partecipazione  alle visite collegiali della squadra di lavoro e la diffusione di  informazioni scorrette ed offensive circa l’esecuzione di un intervento chirurgico da parte di un collega.

Confermando la sentenza del Tribunale di primo grado, la Corte di Appello di Ancona aveva respinto il ricorso.

Per la Corte territoriale,  i fatti contestati avevano  minato irreparabilmente il vincolo fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro e, pertanto, si erano legittimamente tradotti in una   giusta causa di licenziamento, senza che, a tal fine, potesse assumere rilievo la mancata previa pubblicazione del  codice disciplinare aziendale.

Investita della questione,   la Cassazione ha sottolineato che la doglianza basata sulla prospettata necessità della pubblicità del codice disciplinare risulta   superata dalla considerazione che  le violazioni imputate al ricorrente fossero ritenute eticamente riprovevoli  per la coscienza sociale.

In tema di sanzioni disciplinari, pertanto, il principio di tassatività degli illeciti non può essere inteso nel senso rigoroso imposto nella materia degli illeciti penali.

In simili casi, dunque, è necessario distinguere  gli illeciti relativi alla violazione di prescrizioni strettamente attinenti all'organizzazione aziendale, per lo più ignote alla collettività e quindi conoscibili solo se espressamente previste ed inserite nel codice disciplinare, da quelli costituiti da comportamenti manifestamente contrari agli interessi dell’impresa o dei lavoratori, per i quali non è necessaria la specifica inclusione nel suddetto codice e che, pertanto,  possono legittimare il recesso  per giusta causa o giustificato motivo soggettivo (1).

Valerio Pollastrini

 
(1)   - Cass., Sentenza. n.18377 del 23 agosto 2006;

Piccole e micro imprese, dall’Inail 30 milioni per la realizzazione di progetti per la sicurezza

L’Inail ha stanziato  30 milioni di euro a favore delle piccole e micro imprese per la realizzazione di progetti di innovazione tecnologica per impianti, macchinari e attrezzature, finalizzati al miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.

Le imprese interessate sono quelle iscritte alla Camera di commercio ed operanti nei settori dell’agricoltura, dell’edilizia e dell’estrazione e lavorazione dei materiali lapidei.

Si tratta di tre comparti i cui indici infortunistici presentano valori tra i più elevati, sia in termini di frequenza, che di gravità.

Particolare attenzione è stata rivolta ai rischi connessi all’uso dei trattori agricoli o forestali nel settore agricolo, alla movimentazione manuale dei carichi e/o di caduta dall’alto nei cantieri temporanei e mobili nel settore dell’edilizia e all’esposizione a rumore e/o a polveri e alla movimentazione manuale dei carichi nel settore di estrazione e lavorazione dei materiali lapidei.

Per quanto riguarda l’ammontare dei finanziamenti, il contributo – in conto capitale – potrà essere erogato fino alla  misura massima del 65% dei costi sostenuti e documentati per la realizzazione del progetto.

Il massimo importo richiedibile da ciascuna impresa è di 50mila euro.

Per favorire la più ampia partecipazione al bando, l’Istituto ha disposto che il contributo minimo ammissibile sia pari a mille euro.

Per accedere ai finanziamenti le aziende interessate dovranno presentare la domanda in via telematica, con successiva conferma tramite Posta elettronica certificata.

Dal 3 novembre 2014, fino alle ore 18 del 3 dicembre 2014, le imprese registrate negli archivi Inail avranno a disposizione una procedura informatica che consentirà loro la compilazione della domanda, con le modalità indicate nel Bando.

Al fine di velocizzare l’erogazione dei finanziamenti, l’Istituto ha fissato in sei mesi improrogabili  il termine per la realizzazione degli interventi finanziati.

Per ogni eventuali informazione, si ricorda che è possibile contattare il Contact center dell’Inail al numero verde 803.164, gratuito da rete fissa, mentre per le chiamate da cellulare è disponibile il numero 06 164164 , a pagamento in base al piano tariffario del proprio gestore telefonico.

Valerio Pollastrini

sabato 19 luglio 2014

Gli insegnanti precari hanno diritto all’Aspi nei mesi di luglio ed agosto

Nel Messaggio n.6050 del 15 luglio 2014, l’Inps ha chiarito che i docenti fuori ruolo hanno diritto al pagamento dell’ASpI per i mesi di luglio ed agosto.

L’indennità di disoccupazione ASpI, dunque, verrà erogata    agli insegnanti   dopo la conclusione delle attività didattiche, ovvero agli insegnanti  passati in ruolo con decorrenza giuridica antecedente a quella economica.

L’Istituto ha ricordato come ogni anno, dopo il 30 giugno, molti docenti fuori ruolo vengano immessi in ruolo a far data dal 1° settembre dell’anno solare precedente, mentre il relativo trattamento economico decorre per costoro solamente dal 1° settembre dell’anno in corso, con conseguente esclusione della erogazione delle mensilità  di luglio e di agosto.

Nel Messaggio l’Inps ha proseguito affermando che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato di detti lavoratori risulta costituito a partire dall’efficacia giuridica della nomina.

La predetta  scissione tra l’epoca degli effetti giuridici e quella successiva degli effetti economici, tuttavia, induce  a ritenere che la retrodatazione dei primi non può far venir meno lo stato di disoccupazione nel periodo non lavorato,  né, altresì, tale status e la condizione di inattività possono essere imputate alla volontà del lavoratore.

Queste, in sostanza, le ragioni che hanno indotto l’Inps  a ritenere gli insegnanti precari indennizzabili per le giornate di nomina giuridica non lavorate e prive di retribuzione, attraverso il pagamento dell’ASpI.

Dopo aver preso atto di come difficilmente i dati contributivi dei richiedenti risultano aggiornati in tempo reale, l’Istituto ha chiarito che, in via del tutto eccezionale,  le sedi territoriali dell’Inps potranno  acquisire gli ultimi cedolini paga dei docenti precari che presentano domanda, per evitare ingiustificati ritardi nella tutela degli utenti.

Elementi quali  la sussistenza del requisito contributivo,  il calcolo della retribuzione media su cui definire l’importo della prestazione o la  durata della stessa, pertanto, potranno essere accertati dalle buste paga fornite dagli interessati.

Qualora queste siano ininfluenti ai fini della verifica dei requisiti soggettivi necessari all’accoglimento della domanda di ASpI, l’indennità potrà essere accolta in forma provvisoria. In tal caso, l’Istituto provvederà a ricalcolare successivamente la prestazione dopo aver acquisito la documentazione completa.

Qualora, invece, detta indisponibilità risulti decisiva, la domanda sarà momentaneamente sospesa e andrà posta in evidenza e definita solamente dopo l’acquisizione di tutta   la documentazione necessaria.

Valerio Pollastrini

Datore di lavoro responsabile delle emissioni di polvere di amianto

Nella sentenza n.31458 del 17 luglio 2014, la Corte di Cassazione ha confermato la condanna irrogata ad un datore di lavoro, ritenuto responsabile dell’omessa protezione dei dipendenti contro la diffusione delle polveri di amianto.

Il Tribunale di Torino aveva condannato il titolare dell’azienda al pagamento dell’ammenda di 4.000,00 € per il reato configurato nella mancata progettazione, programmazione e sorveglianza delle  lavorazioni su manufatti contenenti amianto, causando così  l’emissione nell’aria delle polveri nocive (1).

L’imputato aveva presentato appello,convertito in ricorso, denunciando la mancata ammissione della prova decisiva rappresentata dalle dichiarazioni rese da una teste, e deducendo l’erronea applicazione dell'articolo 27, comma 1, lettera d), del D.lgs. n. 277/1991,  che il Tribunale aveva ritenuto  applicabile anche laddove non fossero in corso attività lavorative.

Investita della questione, la Cassazione ha ritenuto il ricorso  infondato, premettendo che  il Tribunale avesse rigettato la richiesta della difesa di audizione della richiamata testimone, motivando che la stessa avrebbe deposto su una circostanza non connessa ai fatti di causa.

Tuttavia, il ricorrente aveva invece sostenuto che  la teste avrebbe potuto fondatamente riferire in merito alle circostanze che in concreto avevano originato il  processo.

L'imputato, che aveva omesso di versare l’ ammenda il cui pagamento avrebbe comportato l'estinzione del reato,  aveva infatti rilevato che detto mancato pagamento non fosse ascrivibile ad un suo comportamento omissivo, non avendo ricevuto la comunicazione dell'importo da versare, né l'informazione del non luogo a  procedere in sede penale in caso di adempimento nei tempi prefissati.

Conseguentemente, secondo il ricorrente il giudice avrebbe dovuto  disporre un nuovo  termine per  pagare l'ammenda, consentendogli di estinguere la contravvenzione, ma soltanto la teste citata avrebbe potuto confermare la circostanza dell'ignoranza incolpevole, in quanto la sua deposizione avrebbe certamente chiarito le modalità relative alla notificazione dell'atto con cui l’imputato era stato ammesso al pagamento della sanzione amministrativa e, soprattutto, il fatto che quest'ultimo non fosse mai venuto effettivamente a conoscenza di tale beneficio.

La Suprema Corte ha però ritenuto generica la formulazione di questa censura, rilevando che il ricorrente avrebbe dovuto chiarire le circostanze in ordine alle quali avrebbe dovuto deporre la teste, mentre si era limitato a determinarle nella  pretesa conseguenza dell’ ignoranza incolpevole di una notificazione.

La Cassazione ha poi analizzato la dedotta erronea applicazione dell'articolo 27, comma 1, lettera d), del D.lgs. n.277/1991, avanzata sull’assunto che   il Tribunale avrebbe  ritenuto di scarso rilievo accertare se nel sito   fossero in corso attività lavorative.

Pur riconoscendo che  l'articolo 24, comma 2, dello stesso decreto si riferisce all'inquinamento ambientale, il ricorrente aveva affermato che, di per sé, l'ambiente non sarebbe considerabile  come ecosistema, in quanto la normativa di riferimento è finalizzata espressamente  alla tutela dei lavoratori e le norme asseritamente violate sarebbero deputate alla protezione di questi contro i rischi da esposizione all'amianto durante il lavoro.

A tale proposito, la Suprema Corte ha ribadito che il D.lgs. n.277 del 15 agosto 1991 (2), in materia di protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici durante il lavoro,   contempla la protezione dei lavoratori contro i rischi connessi ad ogni esposizione (3) all'amianto durante il lavoro.

Tuttavia, gli ermellini hanno chiarito che il giudice del merito aveva correttamente rilevato l’effettivo svolgimento in loco di prestazioni lavorative, grazie all’accertata presenza di materiali e postazioni fisse al momento della verifica ASL.

Per le ragioni sopra indicate, la Cassazione ha concluso con il rigetto del ricorso, confermando così la condanna dell’imprenditore.

Valerio Pollastrini


(1)   – Fattispecie di reato prevista dall'articolo 27, comma 1, lettera d), del  D.lgs. n.277/1991;
(2)   - Che, a norma della Legge Delega n.212 del 30 luglio 1990, ha effettuato l'attuazione di varie direttive CEE (80/1107, 82/605, 86/188 e 88/642);
(3)   - Cass., Sentenza n.10527 del  3 febbraio 2009 n. 10527;

Nessuna provvigione se il mediatore non e' iscritto al ruolo degli agenti

Nella sentenza n.15842 del 17 giugno–10 luglio 2014, la Corte di Cassazione ha ribadito che, se non iscritto al ruolo degli agenti, il mediatore non ha diritto alla provvigione per la conclusione dell’affare.

Nel caso di specie, il Tribunale di Roma aveva condannato il proprietario di un locale commerciale al pagamento, in favore del proprio avvocato, della somma di 15.493,71 € a titolo di provvigione per il ruolo svolto dal legale nell’affitto dello stesso.

La Corte di Appello di Roma, in riforma della impugnata pronuncia, aveva rigettato la domanda proposta dall'avvocato , condannandolo alla restituzione della somma ricevuta  in ottemperanza dell'ordinanza ingiuntiva ex art. 186-ter cod. proc. civ. e della sentenza di primo grado.

La Corte del merito aveva rilevato come  il giudice di primo grado avesse accertato la netta prevalenza dell'incarico di mediazione rispetto all'attività legale ad essa affiancata, tanto da ritenere che il compenso pattuito per la prima inglobasse anche quello per la seconda.

Il giudice dell’appello aveva quindi sottolineato che la legge n.39 del 3 febbraio 1989  (1), concernente la disciplina della professione di mediatore,  trova applicazione anche con riguardo alla mediazione una tantum, essendone l'esercizio, anche se occasionale o discontinuo, comunque subordinato all'iscrizione -nella specie non sussistente – nell’apposito ruolo, previo superamento di un  esame di Stato.

Investita della questione, la Cassazione ha rilevato come la Corte di Appello si fosse correttamente attenuta al principio in base al quale  le disposizioni della richiamata norma riservano lo svolgimento dell’attività di mediatore ai soli iscritti al ruolo degli agenti e, in caso contrario, prevedono, altresì,  l’inesigibilità della provvigione (2).

Valerio Pollastrini

 
(1)   - Modificata ed integrata dalla Legge n.253 del 21 marzo 1958;
(2)   - Cass., Sentenza n.5953 del 18 marzo 2005; Cass., Sentenza n.19066 del 5 settembre 2006; Cass., Sentenza n.16147 dell’ 8 luglio 2010;

Quando il curatore fallimentare risponde dell’omesso versamento delle imposte

Nella sentenza n.16373 del 17 luglio 2014, la Corte di Cassazione ha ricordato i presupposti in base ai quali il curatore fallimentare può essere ritenuto responsabile del mancato pagamento delle imposte da parte della società.

La pronuncia in commento trae origine dalla sentenza con la quale la Commissione Tributaria Regionale aveva accolto l’appello proposto da un professionista, ritenuto coobbligato in solido, prima in veste di amministratore giudiziale e poi come curatore fallimentare di una srl unipersonale.

Nell’adire la Suprema Corte, l’Agenzia delle Entrate ha formulato un quesito di diritto in merito ai limiti entro i quali il curatore può essere ritenuto responsabile  dell’omesso versamento delle imposte, con il conseguente obbligo a carico del professionista di liquidare le suddette pretese.

In particolare, l’Agenzia aveva chiesto   se  un simile onere gravasse sul curatore in causa.

Investita della questione, la Cassazione ha ricordato che i liquidatori dei soggetti all'imposta sul reddito delle persone giuridiche, che non adempiono all'obbligo di pagare nella fase di liquidazione le imposte dovute, rispondono in proprio del versamento  se soddisfano crediti di ordine inferiore a quelli tributari o assegnano beni ai soci o associati senza avere prima soddisfatto quelli dell’Erario  (1).

Si tratta di una responsabilità che risulta commisurata all'importo dei crediti di imposta che avrebbero trovato capienza in sede di graduazione dei crediti.

La Cassazione ha quindi sostenuto che, nonostante le suddette disposizioni siano applicabili agli amministratori in carica all'atto dello scioglimento della società o dell'ente se non si sia provveduto alla nomina dei liquidatori, tuttavia, esse esprimono il principio di carattere generale in base al quale ciascuno deve rispondere di un evento nella misura in cui abbia concorso a cagionarlo.

Affinché  si possa ritenere sussistente  il concorso del curatore nella determinazione del mancato pagamento di un’imposta è necessario, dunque, che l’omesso versamento sia stato causato  da un suo comportamento contrario alla legge.

Per coinvolgere il curatore, quindi, occorre  che nell’atto impositivo siano enunciate le circostanze che abbiano determinato il cattivo utilizzo dell’attivo fallimentare e, nella specie, tali circostanze non erano state provate nel giudizio.

A tale riguardo, infatti, la Suprema Corte ha rilevato che la cartella non conteneva alcuna enunciazione o motivazione a proposito delle ragioni che avrebbero determinato la responsabilità del curatore nel cattivo utilizzo dell’attivo fallimentare e, pertanto, ha rigettato il ricorso.

Valerio Pollastrini


(1)   - Art.36 del D.P.R. n.602 del 29 settembre 1973;

Accertamento della legittima presenza in Italia del cittadino extracomunitario

Nella sentenza n.31620 del 17 luglio 2014, la Corte di Cassazione ha ricordato che dalla mancata  certezza della data in cui lo straniero, in possesso di valido passaporto, sia entrato in Italia,  non può presumersi  che siano scaduti i termini entro i quali lo stesso può legittimamente richiedere il permesso di soggiorno.

Il Giudice di pace di Genova aveva ritenuto un  cittadino senegalese responsabile del reato previsto dall'art. 10-bis del D.lgs. n.286 del 25 luglio 1998, per aver fatto ingresso o essersi comunque trattenuto illegalmente nel territorio dello Stato,  e lo aveva condannato alla pena di  5.000,00 € di ammenda.

Avverso la predetta sentenza, l’imputato aveva  proposto ricorso per Cassazione, lamentando che non fossero state provati nel giudizio del merito né la data del suo ingresso, né la sua permanenza irregolare  nel territorio dello Stato.

Lo straniero aveva confermato di essere  provvisto di valido passaporto, tuttavia, aveva rilevato che, non avendo la sentenza impugnata accertato   l'eventuale titolarità del visto per l'ingresso, né la data del suo ingresso in Italia, il giudice del merito non avrebbe potuto  escludere la pendenza del previsto termine di tolleranza per la richiesta del permesso di soggiorno e, pertanto, non avrebbe raggiunto la prova della sua presenza irregolare nel territorio nazionale.

Investita della questione, la Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso.

La Suprema Corte ha ricordato come la contravvenzione prevista dall'art. 10-bis del  D.Lgs. n.286 del  25 luglio 1998 (1), con successive modifiche ed integrazioni, sanzioni  con l'ammenda da 5.000 a 10.000 euro  l'ingresso ovvero il trattenimento dello straniero nel territorio dello Stato.

A norma dell'art. 4, comma 1, del Testo Unico sull’Immigrazione, può  entrare nel territorio dello Stato lo straniero in possesso di passaporto valido, o documento equipollente, e del visto d'ingresso.

Il successivo art.5, commi 1 e 2, chiarisce, invece, che per il legittimo trattenimento in Italia, lo straniero deve richiedere il permesso di soggiorno al Questore della Provincia in cui si trovi entro otto giorni lavorativi successivi al suo ingresso nel territorio dello Stato.

Nel caso di specie, la sentenza aveva attestato che l’imputato fosse  in possesso di valido passaporto, senza chiarire nulla a proposito del visto d'ingresso, e si era limitata ad annotare che lo straniero fosse sprovvisto di permesso di soggiorno o di qualsivoglia altro documento idoneo a giustificare il suo soggiorno in Italia.

A detta della Cassazioni, tali circostanze confermavano la correttezza della censura mossa dal ricorrente in merito al mancato accertamento sia dell’illegittimo ingresso  nel territorio dello Stato, che dell'intervenuta scadenza del termine di otto giorni per richiedere il permesso di soggiorno.

La Suprema Corte, in proposito, ha rilevato che, per ritenere integrata la contravvenzione prevista e punita dall'art. 10-bis  del T.U. Imm., ove manchi certezza sulla data di ingresso  in Italia del cittadino straniero, nel caso in cui questi sia in possesso di valido passaporto,  non è possibile  presumere che sia  già scaduto il termine di otto giorni lavorativi dalla data di ingresso per richiedere il permesso di soggiorno (2).

Per tale ragione gli ermellini hanno disposto l’annullamento della sentenza impugnata, provvedendo a rinviare la causa allo stesso ufficio giudiziario del merito che, in diversa composizione, dovrà tener conto dei necessari accertamenti sulla posizione giuridica dello straniero nel nostro Paese.

Valerio Pollastrini

 
(1)   - Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero;
(2)   – Cass., Sentenza  n.37051 del 30 settembre 2010; Cass.,Sentenza n. 27815 del 22 maggio 2013;

Servizi Mobile anche per le aziende

Nella News del 18 luglio 2014 l’Inps ha annunciato l’apertura di un nuovo canale di servizio per le aziende.

L’Istituto ha reso disponibile nell’app “Servizi Mobile INPS”, scaricabile da AppleStore e GooglePlay, i primi servizi per aziende e consulenti/professionisti loro intermediari.

Si tratta del servizio “Cassetto previdenziale aziende”, che consentirà agli utenti sopra richiamati, tramite dispositivi mobile con sistemi operativi IOS e Android, le seguenti operazioni:

-  gestire la “Comunicazione bidirezionale” con Inps (ad es. la variazione dati sull’azienda oppure la trasmissione degli F24, le segnalazioni su note di rettifica ecc.) ritrovando dati e documenti inviati all’Istituto nel Cassetto previdenziale del portale web;

-  utilizzare l’”Agenda appuntamenti” per richiedere un appuntamento presso la Sede competente per la risoluzione di problematiche varie.

L’applicazione è stata integrata con il sistema di gestione delle deleghe aziendali, pertanto,  ogni intermediario delegato potrà visionare le pratiche di tutte le aziende clienti inserendo lo stesso codice PIN multiprofilo  assegnato per l’accesso ai servizi del  portale Inps.

Per coloro che utilizzano  dispositivi con sistema operativo diverso da IOS e Android il nuovo servizio sarà invece fruibile nei prossimi giorni nella sezione Servizi del sito mobile m.inps.it.

Nell’app “Servizi Mobile INPS” sono stati inoltre implementati due servizi già disponibili: Il servizio di consultazione dell’”Estratto Conto Contributivo” è stato esteso anche ai lavoratori iscritti alla Gestione Lavoratori Spettacolo e Sport (ex Enpals), mentre il servizio di consultazione “Stato pratiche Gestione Dipendenti Pubblici" consente ora di seguire l’avanzamento dell’iter delle domande presentate.

Lavoratori extracomunitari - Assegni familiari erogati dal Comune

Nella sentenza n.15220 del 3 luglio 2014, la Corte di Cassazione ha stabilito che l’assegno per il nucleo familiare erogato dai Comuni deve essere riconosciuto al cittadino extracomunitario regolarmente soggiornate, non soltanto a decorrere dal 1° luglio 2013, ma con effetto retroattivo dal 1° gennaio 1999.

Il caso di specie è quello di una  cittadina senegalese, madre di tre figli minori, che si era vista negare l'assegno per il nucleo familiare dal   Comune di residenza.

L’Ente aveva sostenuto che la richiedente,  non essendo cittadina Italia o dell’Unione Europea, non avesse diritto alla prestazione richiesta.

La donna aveva quindi adito le vie legali, deducendo il carattere discriminatorio della condotta tenuta dall’Inps e dal Comune, configurata nel diniego dell’assegno familiare ad una cittadina extracomunitaria regolarmente soggiornante.

I primi due gradi di giudizio si erano conclusi con l’accoglimento delle domande avanzate dalla donna, sul presupposto che i cittadini extracomunitari in possesso del permesso di soggiorno devono essere equiparati ai cittadini italiani e comunitari.

Contro le sentenze del merito, l’Inps si era rivolta alla Cassazione, sostenendo che la disciplina dell'assegno per il nucleo familiare con almeno tre figli minori, concesso dai Comuni,  sarebbe  espressamente riservata ai cittadini italiani e comunitari e, pertanto, non potrebbe essere estesa anche in favore dei   cittadini stranieri soggiornanti di lungo periodo.

Investita della questione, la Suprema Corte ha respinto il ricorso dell’Istituto Previdenziale.

Pur confermando che la normativa applicabile avesse originariamente escluso da tale beneficio assistenziale i cittadini extracomunitari, la Cassazione ha ricordato che la Direttiva Comunitaria n.2003/109/CE del 25 novembre 2003 fosse successivamente intervenuta per estendere il diritto alla prestazione in commento anche ai cittadini dei Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo

Nella sentenza n.222/2013, la Corte Costituzionale aveva fatto esplicito riferimento alla richiamata Direttiva riconoscendo come, a livello comunitario, sia legittimo distinguere tra cittadini extracomunitari in possesso di tale status e cittadini extracomunitari che ne siano ancora sprovvisti.

Pur recependo (1)  la direttiva suddetta, definendo i presupposti del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, il legislatore italiano  non aveva modificato la precedente normativa che, pertanto,  continuava a non includere i soggiornanti di lungo periodo tra i beneficiari della menzionata prestazione assistenziale.

In seguito all’apertura di una procedura di infrazione della normativa comunitaria (2), l’ordinamento interno ha successivamente esteso anche ai cittadini extracomunitari soggiornanti di lungo il diritto alla fruizione dell’assegno familiare erogato dai Comuni.

Il medesimo beneficio, dunque, risulta  ora previsto in favore dei nuclei familiari composti da cittadini italiani e dell'Unione Europea residenti, da cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, nonché dai familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, con tre o più figli tutti con età inferiore ai 18 anni.

Dopo questo esaustivo riepilogo delle fonti normative applicabili, la Cassazione ha confermato che  il suddetto assegno per il nucleo familiare deve essere riconosciuto, in ragione della giurisprudenza della CEDU, non soltanto a decorrere dal 1° luglio 2013, ma con effetto retroattivo dal 1° gennaio 1999.

Valerio Pollastrini

 
(1)     D.Lgs. n.3 dell’ 8 gennaio 2007;
(2)   - Procedura di infrazione  n.2013/4009 ai danni dello Stato italiano;