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giovedì 27 febbraio 2014

Società ed associazioni sportive dilettantistiche – Quadro normativo ed attività di vigilanza

Con la Nota n.4036 del 21 febbraio 2014 il Ministero del lavoro ha diramato i risultati degli approfondimenti compiuti su alcune problematiche di natura giuridica relative alle realtà occupazionali delle società ed associazioni sportive dilettantistiche.
 
Premesso che la particolare funzione sociale svolta dalle società ed associazioni sportive dilettantistiche giustifica l’attuale  quadro legislativo di riferimento che prevede un trattamento di favore loro applicabile, il Ministero ha preliminarmente compiuto un esaustivo riepilogo della  normativa statale del settore, ricordando come la stessa esprima un costante riferimento alla regolamentazione sportiva che la integra e ne consente la concreta attuazione.
Le società e associazioni sportive dilettantistiche (SSD e ASD) disciplinate dall’articolo 90 della L. n. 289/2002 sono  caratterizzate dall’assenza di finalità lucrative e devono essere riconosciute dal CONI che ha l’obbligo di iscriverle nell’apposito Registro delle società e associazioni sportive dilettantistiche.
Attraverso il riconoscimento da parte del CONI, le società e le associazioni in questione, entrano a far parte dell’ordinamento sportivo e sono quindi sottoposte sia alle norme specifiche di questo ordinamento che a quelle dell’ordinamento statale.
Tale particolarità differenzia  le SSD/ASD  dalle realtà imprenditoriali che esercitano la propria attività sempre nell’ambito dello sport ma con fini di lucro.
Proprio a questo  riguardo, la Nota ministeriale ricorda che  l’art. 7 del D.L. n. 136/2004 (1) assegna al CONI il compito di certificare l’effettiva attività sportiva svolta dalle società e dalle associazioni dilettantistiche ed impone altresì all’Ente l’onere di trasmetterne annualmente l’elenco  al Ministero dell’economia e delle finanze - Agenzia delle Entrate.
Il riconoscimento  del CONI costituisce pertanto il presupposto per l’applicazione del particolare trattamento di favore sul quale, come detto in precedenza, possono contare le SSD e le ASD.
Va poi segnalato che l’art. 35, comma 5, del D.L. n. 207/2008 (2), con riferimento ai rapporti di collaborazione instaurati dalle SSD o ASD per l’esercizio diretto di attività sportive dilettantistiche, ha specificato  che tra le attività che il T.U.I.R. sottopone al regime fiscale proprio dei “redditi diversi” - vanno ricomprese anche la formazione, la didattica, la preparazione e l’assistenza all’attività sportiva dilettantistica.
La disposizione, pertanto, non limita la sua operatività al solo caso di prestazioni rese per la partecipazione a gare e/o manifestazioni sportive, bensì le estende anche a tutte quelle relative allo svolgimento delle attività dilettantistiche di formazione, di didattica di preparazione e di assistenza intese nell’accezione più ampia del termine “attività sportiva”.
Per formazione didattica e preparazione vanno intese, in particolare,  le attività svolte in forma dilettantistica dagli istruttori e dagli allenatori operanti all’interno delle SSD e ASD.
Con la risoluzione n. 38/E del 17 maggio 2010, l’Agenzia della Entrate ha chiarito che sono sottoposti al regime fiscale per i “redditi diversi” anche i compensi erogati dagli Enti in commento nei confronti di soggetti che svolgono le attività di formazione, didattica, preparazione e assistenza all’attività sportiva dilettantistica, ossia di soggetti che non svolgono un’attività durante la manifestazione, ma rendono le prestazioni indicate - formazione, didattica, preparazione e assistenza all’attività sportiva dilettantistica - a prescindere dalla realizzazione di una manifestazione sportiva.
Anche l’ENPALS, nella Circolare  n. 18/2009, ha confermato che per la connotazione della nozione di esercizio diretto di attività sportive dilettantistiche non assume alcuna rilevanza la circostanza che le attività medesime siano svolte nell’ambito di manifestazioni sportive ovvero siano a queste ultime funzionali.
Il Ministero del lavoro ha inoltre ricordato che l’art. 90 della L. n. 289/2002 ha esteso il citato trattamento di favore anche ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di carattere amministrativo-gestionale di natura non professionale resi in favore di società e associazioni sportive dilettantistiche, anche in virtù di quanto disposto  dalla Circolare n. 21/E del 22 aprile 2003 dell’Agenzia delle Entrate che aveva  chiarito come nella  tipologia in questione potessero essere ricomprese le prestazioni connesse ai compiti tipici di segreteria (raccolta iscrizioni frequentatori, contabilità “prima nota”, cassa ecc.) purché non richiedenti particolari conoscenze di natura tecnico-giuridiche tipiche del professionista.
Va infine segnalato che l’art. 61, comma 3, del D.Lgs. n. 276/2003 ha escluso dall’ambito di applicazione della disciplina dei c.d. contratti a progetto i rapporti e le attività di collaborazione coordinata e continuativa comunque rese e utilizzate a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciute dal CONI, come individuate e disciplinate dall’articolo 90 della legge 27 dicembre 2002, n. 289.
Dopo questo lungo excursus del quadro normativo di riferimento dal quale è possibile evincere la complessità della specificità della disciplina che interessa le società e le associazioni sportive dilettantistiche, il Ministero ha preso atto   che l’attività di vigilanza svolta nei confronti di tali realtà ha determinato l’insorgere di contenziosi con esito in buona parte non favorevole per l’Amministrazione e per l’INPS.
In un simile contesto, la Nota ravvisa  l’opportunità di promuovere, d’intesa con l’Ente Previdenziale, alcune iniziative di carattere normativo, volte ad una graduale introduzione di forme di tutela previdenziale in favore dei soggetti che, nell’ambito delle associazioni e società sportive dilettantistiche riconosciute dal CONI, dalle Federazioni sportive nazionali, nonché dagli enti di promozione sportiva, svolgono attività sportiva dilettantistica, nonché attività amministrativo-gestionale non professionale.
Ferma restando l’attività di vigilanza già avviata ed i contenziosi in essere, il Ministero ritiene dunque   opportuno  concentrare l’ attività di vigilanza sulle diverse realtà imprenditoriali evidentemente non riconosciute dal CONI, dalle Federazioni sportive nazionali o dagli enti di promozione sportiva e non iscritte nel Registro delle società e associazioni sportive dilettantistiche.
Resta altresì ferma la possibilità di intervenire anche in questo settore nell’ambito di attività congiunte con l’Amministrazione fiscale - interessata alla verifica dei presupposti di affiliazione al CONI e quindi della applicabilità del citato trattamento di favore - nonché nelle ipotesi di richieste di intervento per presunto svolgimento di prestazioni di natura subordinata.
Valerio Pollastrini

(1)   - Convertito dalla Legge n. 186/2004;

(2)   - Convertito dalla Legge n. 14/2009;

Nuove “linee guida” per l’apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere

Il 20 febbraio 2014 la  Conferenza Stato-Regioni ha approvato  le linee guida per la disciplina dell’apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere.

Si tratta del provvedimento di attuazione  di  quanto previsto dall’art.2, comma 2, del D.L. n. 76/2003 (1) che aveva demandato alla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano l’adozione di linee guida volte a disciplinare il contratto di  apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere.

L’apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere è disciplinato dall’art. 4 del TU sull’apprendistato, che ne autorizza l’applicazione  in tutti i settori di attività, pubblici o privati per il conseguimento di una qualificazione contrattuale di soggetti con  un’età compresa tra i diciotto ed i ventinove anni.

Le nuove linee guida
Il provvedimento in commento prevede innanzi tutto  la seguente durata minima della formazione,  diversificata in base al titolo di studio posseduto dall’apprendista:

-         120 ore per i soggetti in possesso della sola licenza di scuola secondaria di primo grado;
-         80 ore per i possessori di un diploma di scuola secondaria di secondo grado;
-         40 ore per gli apprendisti in possesso di una laurea.

Le linee guida chiariscono che la durata dei moduli di apprendimento potrà comunque essere ridotta nel caso in cui l’apprendista  abbia già svolto percorsi formativi in precedenti contratti di apprendistato.

Novità si segnalano inoltre per quanto riguarda  il contenuto della formazione che dovrà avere ad oggetto:

-         la sicurezza sui luoghi di lavoro;
-         l’organizzazione aziendale;
-         i diritti e doveri dei lavoratori, la legislazione sociale e la contrattazione collettiva;
-         la competenza digitale e gli elementi della professione.

Per le imprese che non volessero aderire all’offerta pubblica, è prevista la possibilità di organizzare in proprio il modulo formativo, a patto che lo stesso rispetti gli standard minimi relativi ai luoghi di frequentazione dei corsi, tutor ecc.

Le imprese con più sedi in diverse Regioni, potranno scegliere, in alternativa, tra l’offerta formativa della Regione in cui hanno la sede legale  e quella proposta dalle Regioni in cui hanno la sede operativa.

Si segnala, infine, l’obbligo per l’impresa di registrare la formazione effettuata dall’apprendista sull’apposito libretto formativo del cittadino, nel quale dovrà essere indicata anche la qualifica professionale eventualmente acquisita dallo stesso ai fini contrattuali.

In assenza del libretto formativo,  tali indicazioni dovranno essere evidenziate sul documento equivalente di cui al D.M. 10 ottobre 2005 del Ministero del lavoro.

Valerio Pollastrini


(1)   – c.d. “Decreto Lavoro” del Governo Letta;

I dipendenti pubblici dovranno restituire i compensi extra

Una norma  di prossima emanazione prevede alcune novità per il Pubblico Impiego.

I dipendenti e i dirigenti degli Enti Locali che abbiano percepito un compenso superiore rispetto a quello previsto dal contratto dovranno restituire quanto ricevuto indebitamente.

Le Regioni e gli Enti Locali saranno chiamati, pertanto, a recuperare integralmente le maggiori somme erogate ai lavoratori attraverso un graduale riassorbimento per quote annuali, con un massimo di annualità pari a quelle nelle quali siano stati superati i vincoli finanziari della contrattazione integrativa.

Lo stesso provvedimento prevede, inoltre, che  nei predetti casi le Regioni dovranno  adottare ulteriori misure, rispetto a quelle già previste dalla vigente normativa, per contenere le spese per il personale, anche attraverso l'accorpamento di uffici e la riduzione delle dotazioni organiche del personale dirigenziale in misura non inferiore al 20% e della spesa complessiva del personale non dirigenziale nella misura non inferiore al 10 %.

Valerio Pollastrini

Non sono dovuti gettoni di presenza nei consorzi dei comuni

La disciplina di cui all’articolo5, comma 7 del Dl n.78/2010, che impone la gratuità dell’incarico, trova applicazione anche nei confronti dei componenti dei consigli di amministrazione dei consorzi di enti locali.

A proposito delle questioni relative alle scelte compiute da  “organismi  partecipati”, Regioni, Province e Comuni possono inoltrare specifiche richieste di parere alla Corte dei Conti.

Va però specificato che l’ammissibilità delle richieste sussiste esclusivamente nel caso in cui il parere sollecitato sia giustificato dall’esercizio di attribuzioni intestate all’ente formalmente legittimato.

Valerio Pollastrini

martedì 25 febbraio 2014

Indici rilevatori della sussistenza della subordinazione

Nella sentenza n. 1318 del 22 gennaio 2014 la Corte di Cassazione ha ricordato che la presenza di determinati indici rilevatori tra le effettive modalità di esecuzione della prestazione determina una presunzione di subordinazione.

Nel  caso in commento la ricorrente  aveva svolto la propria prestazione in favore della Rai attraverso la successione di diversi contratti di lavoro.

Ad un primo rapporto di lavoro autonomo,  erano seguiti degli altri contratti, questa volta di lavoro subordinato a termine.

La lavoratrice si era rivolta al Giudice del lavoro chiedendo in suo favore il riconoscimento di un unico rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Dopo il primo grado di giudizio, la Corte d'Appello di Roma aveva accolto le richieste della lavoratrice, ritenendo che, di fatto,  il primo contratto di lavoro autonomo fosse connaturato dalle  modalità tipiche della subordinazione.

La Corte di merito aveva  pertanto disposto la conversione di tale rapporto in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con  la conseguente declaratoria di nullità dei termini apposti nei successivi contratti a tempo determinato.

Contro la sentenza di Appello, la Rai aveva proposto ricorso per Cassazione.

Nel respingere il ricorso, la Suprema Corte ha preliminarmente ricordato come i principi della giurisprudenza di legittimità ritengono sussistente una  presunzione di subordinazione  dinnanzi a  prestazioni  lavorative onerose svolte all'interno dei locali dell'azienda, con materiali ed attrezzatura proprie della stessa e con modalità, di norma, caratterizzanti i lavoratori subordinati.  

In presenza di una simile presunzione, l’onere di   dimostrare la diversa natura del rapporto ricade sul datore di lavoro.

La Cassazione ha poi aggiunto che per l’accertamento dell’eventuale sussistenza della subordinazione, più che la volontà espressa dalle parti,  occorre verificare i dati fattuali emergenti dal concreto svolgimento della prestazione.

La Suprema Corte ha concluso confermando la correttezza del giudizio di merito che, nel  riscontrare l'assoggettamento della lavoratrice alle direttive dei responsabili della trasmissione in cui lavorava e la sua  collaborazione  alle diverse attività redazionali, aveva rinvenuto gli elementi sintomatici della subordinazione, determinanti ai fini della qualificazione di un rapporto di lavoro come subordinato.

Valerio Pollastrini

Contenuti diffamatori della nota di valutazione del dipendente

Nella sentenza n.294 del 9 gennaio 2014 la Corte di Cassazione ha ritenuto diffamatoria la valutazione dell’operato di un dipendente  contenuta in una  nota informativa redatta dal superiore gerarchico.

Il caso in commento è quello di un funzionario dell’Ufficio Imposte Dirette di Monza che era stato definito “presuntuoso, arrogante e sleale” in un rapporto informativo relativo al suo comportamento in servizio redatto dal proprio superiore.

Il lavoratore si era rivolto al Giudice del lavoro chiedendo la condanna del superiore e del Ministero dell’Economia per il contenuto ingiurioso della nota informativa.

In accoglimento della domanda del ricorrente, il Tribunale aveva condannato i resistenti al pagamento di un risarcimento stimato in 1.550,00 €. Tale decisione, confermata successivamente dalla Corte di Appello di Milano, era stata impugnata dinnanzi alla Corte di Cassazione.

La Cassazione ha ritenuto corretta la pronuncia della Corte di Appello che aveva ritenuto ingiuriose e diffamatorie le espressioni utilizzate nel rapporto informativo, finalizzate a porre in cattiva luce il lavoratore. Il giudizio di merito aveva inoltre precisato come tali espressioni non fossero necessarie per descrivere le eventuali carenze  del ricorrente e si erano dunque rivelate del tutto gratuite.

Quanto alla sussistenza della diffamazione, la Suprema Corte ha ribadito che i giudizi espressi dal superiore gerarchico difettavano del requisito della riservatezza, dal momento che erano risultati posti a conoscenza di un numero indefinito di persone.

Dopo la declaratoria della sussistenza della diffamazione nei confronti del lavoratore, la Cassazione ha concluso confermando l’entità della liquidazione del danno stimata dalla Corte di merito, ritenuta correttamente commisurata all’entità e alla gravità delle offese e alle sofferenze, nonché al turbamento d’animo, procurati al dipendente.

Valerio Pollastrini

domenica 23 febbraio 2014

Licenziamento per sopragiunta inidoneità fisica del lavoratore

Nella sentenza n.3224/2014 la Corte di Cassazione ha chiarito che l’inidoneità fisica del lavoratore allo svolgimento delle abituali mansioni, ne legittima il licenziamento nel caso in cui l’azienda dimostri l’impossibilità di adibire lo stesso ad una diversa occupazione.

Nel caso di specie, in entrambe i gradi del giudizio di merito era stato respinto  il ricorso di un lavoratore che aveva contestato la  legittimità del licenziamento irrogatogli per sopraggiunta inidoneità fisica.

Il Tribunale aveva però condannato l’azienda a risarcire il danno biologico, stimato in 11.571,00 €, procurato al dipendente che, a causa delle mansioni assegnategli, aveva subito l’aggravamento di alcune patologie sofferte in seguito ad un infortunio occorsogli durante un precedente rapporto di lavoro con terzi.

Successivamente, la Corte di Appello aveva però escluso la responsabilità datoriale per l’aggravamento della salute del dipendente, ritenendola ascrivibile  allo svolgimento di attività extralavorativa non professionistica di allenatore sportivo di calcio.

Nel rivolgersi alla Cassazione, il lavoratore, a proposito della legittimità del licenziamento, aveva rilevato l’insufficiente motivazione della sentenza di merito a proposito dell’affermata impossibilità di repechage, vale a dire l’eventualità di adibizione dello stesso in altre mansioni compatibili con il proprio stato di salute.

La pronuncia della Cassazione
La Suprema Corte ha richiamato preliminarmente il consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità (1)  in virtù del quale l’impossibilità di utilizzazione del lavoratore in mansioni equivalenti deve essere provata dal datore di lavoro quale presupposto per la legittimità del licenziamento disposto per inidoneità lavorativa.

La Cassazione ha poi ricordato che, in virtù della libera iniziativa economica dell’impresa, sancita dall’art.41 della Costituzione,  la valutazione  del Giudice circa la sussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento non può sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’azienda, ma deve incentrarsi sulla verifica dell’effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, in ordine al quale lo stesso ha l’onere di provare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l’impossibilità di una differente collocazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte.

Per la Suprema Corte  una simile  prova non può però essere intesa in modo rigido, presupponendo una collaborazione del lavoratore per l’accertamento di un suo possibile repechage  attraverso l’allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro nei quali  poteva essere utilmente ricollocato. Solo in   presenza di tale allegazione il datore di lavoro avrà l’onere di provare la non utilizzabilità del dipendente nei posti predetti.

La Cassazione si è infine soffermata sulla richiesta di risarcimento del danno avanzata dal lavoratore, sostenendo che nessun addebito possa essere avanzato al datore di lavoro in merito all’aggravamento delle condizioni di salute del dipendente.

A questo proposito, gli ermellini hanno ribadito quanto correttamente affermato dalla Corte di Appello che aveva imputato il peggioramento dello stato di salute del lavoratore all’attività extralavorativa di allenatore di squadre di calcio di III categoria, che, incentrata sul continuo movimento delle gambe era stata ritenuta maggiormente usurante rispetto alle mansioni svolte in ambito lavorativo che richiedevano, invece, l’azionamento di una pedaliera con una resistenza ridotta.

Valerio Pollastrini


(1)   – Corte di Cassazione, Sentenza n. 6552 del 18/03/2009;

Extracomunitari: al via i controlli sulla conoscenza della lingua

Con la Circolare n.824 del 10 febbraio 2014, il Ministero dell’Interno ha comunicato l’imminente inizio delle operazioni di controllo sull’apprendimento della lingua  e delle regole della vita civile del nostro Paese da parte degli stranieri presenti in Italia.
 
Si tratta degli specifici obblighi introdotti dagli Accordi di integrazione.
La Circolare specifica che la Direzione centrale per le politiche dell’immigrazione e dell’asilo ha fornito le indicazioni operative, agli Sportelli Unici Immigrazione, per la verifica sul rispetto degli adempimenti citati.
Valerio Pollastrini

venerdì 21 febbraio 2014

Il nuovo Contratto Collettivo per colf e badanti

E’ di oggi l’annuncio della ratifica del nuovo Contratto Collettivo Nazionale che disciplina il rapporto di lavoro domestico.

Il nuovo testo produrrà i propri effetti retroattivamente dal 1° luglio 2013, mentre scadrà il 31 dicembre 2016.

Tra le novità la regolamentazione delle modalità di godimento del riposo settimanale per i lavoratori conviventi e per quelli ad ore, con particolare riguardo alle colf e badanti la cui fede religiosa preveda la solennizzazione in giorno diverso dalla domenica.

Particolare attenzione è stata poi riservata nei confronti dell'assistenza prestata alle persone non autosufficienti. Per garantire loro un'assistenza completa (7 giorni su 7), al datore di lavoro è stato concesso di assumere – a costi contenuti – un ulteriore lavoratore con prestazioni limitate alla copertura dei giorni di riposo del lavoratore titolare dell'assistenza.

Si ricorda che  in questi giorni era già stato firmato l'accordo relativo all'aggiornamento retributivo dei dipendenti del comparto, in vigore dall'1 gennaio 2014 (1).

Valerio Pollastrini

 
(1)   – Per prendere visione delle nuove tabelle retributive selezionare lo specifico articolo contenuto nella sezione “Lavoro domestico” del presente blog;

Sanzioni applicabili per gli straordinari pagati "fuori busta"

Con la Nota n. 2642 del 6 febbraio 2014, la Direzione Generale per l'Attività Ispettiva del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha risposto ad un quesito avanzato dalla DRL del Veneto a proposito delle sanzioni applicabili in caso di straordinari pagati "fuori busta" e qualora gli importi corrisposti siano inferiori a quelli previsti dalla contrattazione collettiva.

Il Ministero ha ricordato che il quadro normativo di riferimento è rappresentato dall'articolo 5, comma 5, del D.Lgs. n. 66/2003 e dagli articoli 1 e 3 della Legge n. 4/1953. 

L'articolo 5, comma 5, del D.Lgs. n. 66/2003 dispone, tra l’altro, che il lavoro straordinario deve essere computato a parte e compensato con le maggiorazioni retributive previste dalla contrattazione collettiva di riferimento.

Gli articoli 1 e 3 della Legge n. 4/1953 sanciscono, invece, che, nel momento stesso il cui viene corrisposta la retribuzione,  i datori di lavoro sono obbligati a consegnare ai lavoratori dipendenti un prospetto  paga in cui devono essere indicati il nome, il cognome,  la qualifica professionale del lavoratore, il periodo di riferimento della retribuzione, gli assegni famigliari e tutti gli altri elementi della retribuzione, nonché, distintamente, le singole trattenute.

Il Ministero ha rilevato l’estrema gravità della fattispecie del pagamento “fuori busta” delle maggiorazioni dovute per il lavoro straordinario e, pertanto, una simile violazione deve essere punita con le sanzioni previste dalla Legge 4/1953, non a caso più severe rispetto a quelle disposte per  la violazione dell'articolo 5, comma 5, del D.Lgs. n. 66/2003.

Nella Nota in commento è stata dunque ritenuta corretta per il caso di specie l'applicazione della sanzione prevista dagli articoli 1 e 3 della Legge 4/1953, mentre viene specificato che l'applicabilità della sanzione legata alla violazione dell'articolo 5, comma 5, del D.Lgs. n. 66/2003 deve essere verificata in relazione alla residua illiceità della condotta, con particolare riferimento alla corresponsione di maggiorazioni retributive inferiori a quelle comunque previste dalla contrattazione collettiva.

Valerio Pollastrini  

Solo il datore di lavoro può chiedere all'Inps la restituzione dei contributi indebitamente versati, anche per la quota riguardante i lavoratori

A proposito delle assicurazioni sociali obbligatorie, con la sentenza n.3491 del 14 febbraio 2014, la Corte di Cassazione ha ribadito il principio  della c.d. trilateralità del rapporto giuridico previdenziale, intercorrente tra il lavoratore subordinato in veste di soggetto assicurato, il datore di lavoro quale soggetto assicurante e l’Inps come Ente assicuratore.

In sostanza, la costituzione di un rapporto di natura previdenziale determina un’obbligazione contributiva nella quale l’Istituto assicuratore rappresenta il  soggetto attivo, mentre il datore di lavoro, in veste di parte passiva, è il  soggetto sul quale ricade l’onere di versare i contributi nella loro interezza. Come unico beneficiario della prestazione previdenziale, il lavoratore resta invece estraneo a tale rapporto obbligatorio.

Il caso in questione è quello di due lavoratori, assunti dal padre con contratto di lavoro subordinato nell’ambito di un’impresa familiare, successivamente trasformata in s.n.c., che avevano impugnato dinnanzi al Giudice del lavoro il verbale di accertamento con il quale l’Inps, in base all’assunto  che nell'impresa familiare non può sussistere un rapporto di lavoro subordinato, aveva disposto l’annullamento dei contributi previdenziali versati in loro favore.

Il Tribunale aveva accolto il ricorso dei lavoratori, riconoscendo il  diritto dei ricorrenti ad effettuare i versamenti contributivi quali lavoratori subordinati.

Successivamente investita della questione, la Cassazione, ha però rilevato il difetto di legittimazione processuale da parte dei due lavoratori che non potevano quindi proporre l’azione in commento.

La Suprema Corte ha ricordato che, in ragione del fatto che il rapporto di natura contributiva coinvolge esclusivamente il datore di lavoro e l’Ente previdenziale, il datore di lavoro è l'unico legittimato a chiedere all'Ente previdenziale la restituzione dei contributi indebitamente versati, anche per la quota a carico del dipendente. Il lavoratore, invece, può agire esclusivamente nei confronti del datore di lavoro per la restituzione della sua quota.

Lo stesso principio risulta applicabile anche nel caso del mancato versamento dei contributi da parte dell’azienda. In una simile fattispecie, quindi, il lavoratore non può agire verso gli Enti previdenziali per costringerli all'azione di recupero dei contributi, dovendo a tal fine agire per il versamento nei confronti del datore di lavoro.

In sostanza, la Cassazione ha escluso che i lavoratori  possano agire in via autonoma nei confronti dell’Inps per l'accertamento del rapporto di lavoro subordinato, così come, ugualmente, non possono chiedere di sostituirsi al datore di lavoro nel pagamento dei contributi, essendo loro attribuiti, nel caso di omissione contributiva, solo il rimedio previsto dall' art. 2116 c.c. e la facoltà di richiedere all'INPS la costituzione della rendita vitalizia ex art. 13 L. 1338/1962, pari alla quota di pensione che sarebbe spettata in relazione ai contributi omessi.

Valerio Pollastrini

domenica 16 febbraio 2014

Distinzione tra evasione e omissione contributiva

Nell’Ordinanza n.3187 del 12 febbraio 2014, la Corte di Cassazione ha ricordato gli elementi che distinguono, ai fini sanzionatori, le diverse fattispecie dell’omissione e dell’evasione contributiva.

La Corte di Appello di Roma aveva dichiarato l’inefficacia della cartella di pagamento notificata dall’Inps ad un’impresa, relativa agli  interessi e le somme aggiuntive per i contributi dovuti dal gennaio 2001 al dicembre 2003, ritenendo che il regime sanzionatorio non fosse quello previsto per le ipotesi di “evasione contributiva”, ma, bensì, quello meno grave della “omissione contributiva”.

Secondo la Corte di merito, il fatto che la società avesse regolarmente  iscritto i dipendenti nel libro matricola, presentando le denunce annuali ed inviando i modelli DM-10, relativi appunto al periodo gennaio 2001-dicembre 2003, costituiva condizione sufficiente a ricondurre gli inadempimenti  nell’ambito della fattispecie dell’omissione contributiva, nonostante le suddette registrazioni fossero state effettuate in ritardo e, precisamente, nel corso dell’accertamento ispettivo del 2006.

L’Inps aveva ricorso in Cassazione, sostenendo che le sanzioni applicabili non fossero quelle concernenti l’omissione contributiva, ma quelle più gravi previste per l’evasione.

La pronuncia della Cassazione
La Corte ha preliminarmente ricordato come in tema di distinzione tra evasione e omissione contributiva, ai fini del calcolo di interessi e somme aggiuntive, i precedenti della giurisprudenza di legittimità abbiano chiarito che, a proposito degli obblighi contributivi verso le gestioni previdenziali e assistenziali, l’omessa o infedele denuncia mensile all’INPS attraverso i modelli DM-10 circa rapporti di lavoro e retribuzioni erogate integra “evasione contributiva” ex art. 116, comma 8, lett. b), della legge n. 388 del 2000, e non la meno grave “omissione contributiva” di cui alla lettera a) della medesima norma, in quanto l’omessa o infedele denuncia fa presumere l’esistenza della volontà datoriale di occultare i dati allo specifico fine di non versare i contributi o i premi dovuti (1).

Ne consegue che l’onere di provare l’assenza di un intento fraudolento e, quindi, la propria buona fede, grava sul datore di lavoro inadempiente.

 
Nel caso richiamato nel precedente citato,  la Cassazione aveva respinto il ricorso dell’INPS avverso la decisione di merito che, con motivazione congrua, aveva qualificato “omissione contributiva”, anziché “evasione contributiva”, la condotta dell’imprenditore il quale, pur avendo spedito i modelli DM10 con ritardo, peraltro mai superiore a quattro mesi, aveva tenuto regolarmente le scritture contabili e regolarmente inviato il modello 770 contenente la denuncia riepilogativa annuale, circostanze, queste, complessivamente idonee a vincere la presunzione d’intento fraudolento.

Per la Suprema Corte, anche nel caso di specie, l’invio tardivo dei mod. DM 10, nonché la completa regolarità delle scritture, induce a superare la presunzione di ogni intento fraudolento nel mancato (ritardato) invio dei modelli DM-10, dal momento che gli stessi ispettori Inps, nel corso della verifica, avevano rilevato che il debito risultasse già dal confronto tra due diversi archivi dell’Istituto: l’archivio DM-10 e l’archivio Cud che evidenzia le somme annualmente pagate ai dipendenti in forza.

Per tali motivi la Cassazione ha rigettato il ricorso dell’Inps ed ha condannato l’Istituto al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in 3.000,00 € per compensi professionali e 100,00 € per esborsi, oltre Iva e CPA.

Valerio Pollastrini


(1)   - Cass., sentenze n.10509 del 25/06/2012 e n. 4188 del 20/02/2013;

Illegittima l’esclusione dei dirigenti dalle procedura di mobilità

Nella sentenza del 13 febbraio 2014, causa C-596/12, la Corte di Giustizia Ue ha affermato che l’Italia, con l’esclusione della categoria dei dirigenti dall’ambito di applicazione della normativa interna relativa alla cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, è venuta meno agli obblighi  incombenti dalla direttiva 98/59/CE.

La pronuncia della Corte prende spunto dal ricorso presentato dalla Commissione Europea   per  l’infrazione da parte della Repubblica italiana degli obblighi imposti dall’articolo 1, paragrafi 1 e 2, della direttiva 98/59/CE,  in seguito all’esclusione della categoria dei «dirigenti» dall’ambito di applicazione della procedura di mobilità prevista dal combinato disposto degli articoli 4 e 24 della legge del 23 luglio 1991 n. 223, recante norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione.

La normativa europea
L’articolo 2, paragrafi 1 e 2, della direttiva 98/59 stabilisce che quando il datore di lavoro preveda di effettuare licenziamenti collettivi, debba effettuare delle consultazioni con i rappresentanti dei lavoratori al fine di giungere ad un accordo.

Nelle consultazioni devono essere almeno esaminate le possibilità di evitare o ridurre i licenziamenti collettivi, nonché di attenuarne le conseguenze ricorrendo a misure sociali di accompagnamento, intese, in particolare, a facilitare la riqualificazione o la riconversione dei lavoratori licenziati.

Il successivo articolo 5 specifica, invece, come la stessa direttiva non pregiudica la facoltà degli Stati membri di applicare o di introdurre disposizioni legislative, regolamentari o amministrative più favorevoli ai lavoratori.

Normativa italiana
La direttiva 98/59 è stata recepita nel nostro ordinamento dalla legge n. 223/1991, il cui art.4,  rubricato «Procedura per la dichiarazione di mobilità», disciplina la procedura di licenziamento collettivo  nei seguenti termini:

L’impresa che sia stata ammessa al trattamento straordinario di integrazione salariale, qualora ritenga di non essere in grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi e di non poter ricorrere a misure alternative, ha facoltà di avviare la procedura di licenziamento collettivo.

Le imprese che intendano esercitare tale facoltà sono tenute a darne comunicazione preventiva per iscritto alle rappresentanze sindacali aziendali,  nonché alle rispettive associazioni di categoria.

La comunicazione deve contenere l’indicazione dei motivi che determinano la situazione di eccedenza; dei motivi tecnici, organizzativi o produttivi, per i quali si ritiene di non poter adottare misure idonee a porre rimedio alla predetta situazione ed evitare, in tutto o in parte, il licenziamento collettivo; del numero, della collocazione aziendale e dei profili professionali del personale eccedente, nonché del personale abitualmente impiegato; dei tempi di attuazione del programma di riduzione del personale; delle eventuali misure programmate per fronteggiare le conseguenze sul piano sociale della attuazione del programma medesimo; del metodo di calcolo di tutte le attribuzioni patrimoniali diverse da quelle già previste dalla legislazione vigente e dalla contrattazione collettiva.

Entro sette giorni dalla data del ricevimento della predetta comunicazione , a richiesta delle rappresentanze sindacali aziendali e delle rispettive associazioni, è previsto un esame congiunto tra le parti, allo scopo di esaminare le cause che hanno contribuito a determinare l’eccedenza del personale e le possibilità di utilizzazione diversa dei dipendenti in esubero, o di una parte di essi, nell’ambito della stessa impresa, anche attraverso contratti di solidarietà e forme flessibili di gestione del tempo di lavoro.

Nell’impossibilità di evitare la riduzione di personale, bisognerà esaminare la possibilità di ricorrere a misure sociali di accompagnamento, intese, in particolare, a facilitare la riqualificazione e la riconversione dei lavoratori licenziati.

Una volta raggiunto l’accordo sindacale, l’impresa avrà la facoltà di licenziare gli impiegati, gli operai e i quadri eccedenti, comunicando per iscritto a ciascuno di essi il recesso, nel rispetto dei termini di preavviso.

Tali disposizioni si applicano alle imprese che occupino più di quindici dipendenti e che, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intendano effettuare almeno cinque licenziamenti, nell’arco di centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva, o in più unità produttive nell’ambito del territorio di una stessa provincia. Rientrano nella menzionata procedura tutti i licenziamenti che, nello stesso arco di tempo e nello stesso ambito, siano comunque riconducibili alla medesima riduzione o trasformazione.

Procedimento pre-contenzioso
Il 29 maggio 2008 la Commissione Europea aveva invitato la Repubblica italiana a presentare osservazioni in merito alla propria legislazione di recepimento delle procedure di tutela dei lavoratori in caso di licenziamento collettivo previste dalla direttiva 98/59.

L’esclusione della categoria dei “dirigenti” dall’ambito di applicazione della procedura di licenziamento collettivo prevista dalla normativa italiana, secondo la Commissione, non risultava conforme alla  direttiva 98/59.

Il 7 agosto 2008 l’Italia aveva presentato  le proprie osservazioni che però non avevano soddisfatto  la Commissione che aveva, pertanto, avviato la procedura di infrazione.

Con la lettera del 26 giugno 2009 la Commissione Europea  aveva quindi messo in mora la Repubblica italiana,  invitandola nuovamente a presentare le proprie osservazioni.

Ancora non convinta dalle nuove risposte del nostro Paese, la Commissione, in data 22 giugno 2012, aveva emesso un parere motivato, invitando la Repubblica italiana a conformarvisi entro un termine di due mesi.

Con lettera del 3 agosto 2012, la Repubblica italiana aveva chiesto la proroga di tale termine ma la Commissione aveva respinto la richiesta.  Successivamente, non avendo ricevuto alcuna ulteriore comunicazione, la Commissione aveva deciso di ricorrere alla Corte di Giustizia.

Il ricorso della Commissione Europea
La Commissione aveva ricordato che la direttiva 98/59 esplica il proprio ambito di applicazione nei confronti di tutti i lavoratori senza eccezione e, pertanto, risulterebbe non  correttamente recepita dalla legislazione italiana che ammette invece a beneficiare delle garanzie da essa previste solamente  gli operai, gli impiegati ed i quadri, escludendo i dirigenti.

L’Italia si era difesa sostenendo che la normativa ed i contratti collettivi interni riguardanti specificamente i dirigenti, garantendo loro una particolare tutela di carattere economico in caso di licenziamento, compenserebbero la loro esclusione dalle procedure di mobilità, evitando così il venir meno agli obblighi imposti dalla direttiva europea.

Secondo la Corte di Giustizia, tale argomentazione è insufficiente, dal momento che la direttiva 98/59 persegue lo scopo di ravvicinare le disposizioni nazionali relative alla procedura da seguire in caso di licenziamenti collettivi.

A tal fine, l’articolo 2, paragrafo 1, di detta direttiva stabilisce l’obbligo, per il datore di lavoro, di procedere in tempo utile alle consultazioni con i rappresentanti dei lavoratori qualora preveda di effettuare licenziamenti collettivi. Tali consultazioni devono vertere, in particolare, sulla possibilità di evitare o di ridurre i licenziamenti previsti (1).

La direttiva 98/59,  in caso di mancata attuazione della procedura di consultazione nei confronti di taluni lavoratori, risulta quindi parzialmente privata del suo effetto e ciò a prescindere dalle misure sociali di accompagnamento che siano previste in loro favore per attenuare le conseguenze di un licenziamento collettivo.

Con l’esclusione dei dirigenti dall’ambito di applicazione della procedura prevista per i licenziamenti collettivi, la Repubblica italiana è dunque venuta meno agli obblighi previsti dalla richiamata direttiva.

Per tali ragioni, avendo escluso la categoria dei dirigenti dalla normativa interna relativa alla cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, la Repubblica italiana ha violato le disposizioni   della direttiva 98/59/CE  ed è stata, pertanto, condannata al pagamento delle spese.

Valerio Pollastrini


(1)   - Sentenza del 10 settembre 2009, Akavan Erityisalojen Keskusliitto AEK e a., C-44/08, Racc. pag. I-8163, punti 39 e 47;

Impossibile recuperare in busta paga il credito Irpef superiore a 4mila €

Novità in vista per il recupero dei crediti Irpef da parte dei lavoratori subordinati.

Da quest’anno, infatti,  il credito Irpef risultante dal modello 730, se di importo superiore  a 4mila € al netto di eventuali  compensazioni, non potrà più essere accreditato in busta paga dal datore di lavoro.

Il diniego però sussiste  solamente nel caso in cui il diritto al rimborso sia generato dalle  detrazioni per familiari a carico oppure dalle eccedenze di imposte derivanti da precedenti dichiarazioni, a prescindere dall'incidenza delle une o delle altre sulla formazione del credito complessivo.

Valerio Pollastrini

Nel Lazio voucher in favore dei giovani in cerca di occupazione

Novità in vista per i giovani con età compresa tra i 15 ed i 29 anni residenti nel Lazio.

Con una delibera di Giunta, la Regione ha recentemente approvato le regole necessarie all’avviamento della c.d “Garanzia Giovani” che consentirà ai soggetti sopra indicati di usufruire di un pacchetto di servizi oltre ad un Contratto di Collocazione che potrà disporre il riconoscimento di un voucher del valore proporzionale alle difficoltà di collocazione.

In attesa dei necessari chiarimenti, si rimanda ai prossimi flash informativi.

Valerio Pollastrini

giovedì 13 febbraio 2014

Quando il Piano di Inserimento Professionale nasconde un rapporto di lavoro subordinato

Nella sentenza n.2055 del 30 gennaio 2014, la Corte di Cassazione ha chiarito che l’impiego dei lavoratori superiore al periodo previsto per il Piano di Inserimento Professionale determina la conversione del rapporto in un contratto di natura subordinata.

Il caso  in commento è quello che ha riguardato una dipendente della Cooperativa “L’Airone” che aveva svolto mansioni di addetta all’assistenza degli anziani dal 3 novembre 1999 al 31 dicembre 2000.

Come si evinceva dall’annotazione sul libretto di lavoro, il 15 marzo 2000 la lavoratrice era  stata inserita in un "Piano di Inserimento Professionale" (P.I.P.) e, al pari delle altre assistenti inquadrate come dipendenti, aveva svolto le proprie mansioni per 24 ore settimanali, percependo un compenso di 800.000 lire mensili.

Terminato il rapporto, la lavoratrice aveva chiesto al Tribunale di Termini Imerese il riconoscimento della natura subordinata delle prestazioni svolte e, sostenendo di aver  percepito un compenso inferiore rispetto ai minimali fissati  dalla contrattazione collettiva, aveva avanzato l’ulteriore pretesa del pagamento delle differenza retributive.

In seguito all’istruttoria, il giudice adito, ricordando come i Piani di Inserimento Professionale, alla stregua dei contratti di formazione e quelli di apprendistato, siano rapporti di lavoro di tipo formativo con causa mista, aveva accertato che la ricorrente aveva svolto le prestazioni lavorative al pari delle altre dipendenti della società, senza ricevere la necessaria formazione.

Per tale motivo, il Tribunale di primo grado aveva ritenuto che il rapporto instaurato fosse in realtà simulato, celando un rapporto di lavoro subordinato.

Riscontrata la presenza dei tratti tipici della subordinazione, il Tribunale aveva quindi accolto la domanda della ricorrente, applicando per la determinazione delle differenze retributive il C.C.N.L. dei dipendenti del settore assistenziale e socio-sanitario.

Successivamente, la Corte di Appello di Palermo aveva però ribaltato la sentenza di primo grado.

Per la Corte territoriale, dinnanzi ad  un rapporto formalmente instaurato come  Piano di Inserimento Professionale, la sussistenza di una  prestazione di natura subordinata richiedeva una prova, rigorosa e certa. Prova che, in base ai teste ascoltati, a detta del Giudice di secondo grado, non era stata raggiunta.

La lavoratrice aveva dunque adito la Cassazione.

La pronuncia della Cassazione
La Suprema Corte, nell’accogliere il ricorso, oltre a rilevare che la sentenza impugnata aveva omesso di considerare una deposizione testimoniale da cui si evinceva  che il rapporto di lavoro aveva avuto inizio nel 1999 e non nel 2000, ha ritenuto  che l’adempimento degli   obblighi di formazione, imposti per la legittimità del Piano di Inserimento Professionale, non era stato provato dal datore di lavoro.

Ai sensi dell'art. 15, comma 6, del D.L. n. 299/1994 (1), l'utilizzazione dei giovani nei progetti che prevedono periodi di formazione e lo svolgimento di un'esperienza lavorativa per figure professionalmente qualificate, non determina l'instaurazione di un rapporto di lavoro, non comporta la cancellazione dalle liste di collocamento e non preclude al datore di lavoro la possibilità di assumere il giovane, al termine dell'esperienza, con contratto di formazione e lavoro, relativamente alla stessa area professionale.

La Cassazione ha quindi chiarito che,  per potersi escludere l'instaurazione di un rapporto subordinato, è indispensabile l’utilizzazione effettiva del lavoratore all'interno dei progetti, nel rispetto degli obblighi  formativi e dell’ esperienza lavorativa prestabiliti.

Nel caso di specie la lavoratrice  aveva dimostrato di aver prestato attività lavorativa subordinata fin dal 3 novembre del 1999, in un periodo dunque precedente rispetto a quello dell'inserimento nel P.I.P., formalizzato solamente il 15 marzo 2000.

Si tratta di una circostanza  erroneamente ignorata dalla Corte di Appello che, al riguardo, non aveva neppure preso in considerazione una testimonianza decisiva in tal senso.

Per tale ragione, la Suprema Corte ha rinviato la causa alla Corte d'Appello di Palermo che, in diversa composizione, dovrà dirimere la questione.

Valerio Pollastrini


(1)   - Convertito con L. n. 451/1994;