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giovedì 31 ottobre 2013

In caso di mancata contribuzione, il diritto del lavoratore al risarcimento del danno previdenziale decorre dal raggiungimento dell’età pensionabile


In caso di mancato versamento della contribuzione, dinnanzi all’impossibilità dell’Ente Previdenziale di riscuotere quanto dovuto, il lavoratore ha diritto ad agire contro il datore di lavoro per il risarcimento del danno. Nella sentenza n.20827 dell’11 settembre 2013,  la Corte di Cassazione ha affermato che la prescrizione di questa azione risarcitoria decorre dal momento del raggiungimento dell’età pensionabile.

Ai sensi dell'art. 2116 del  codice civile, le prestazioni previdenziali sono dovute al prestatore di lavoro anche quando l'imprenditore non ha versato i contributi. Qualora le istituzioni previdenziali, per mancata o irregolare contribuzione, non siano tenute a corrispondere in tutto o in parte le prestazioni, l'imprenditore è responsabile del danno che ne deriva al prestatore.

Qualora la prescrizione del credito  impedisse agli Enti di previdenza di riscuotere i contributi, il danno subito dal lavoratore dovrà pertanto essere risarcito dal datore di lavoro.

Il problema affrontato nella sentenza in commento riguarda il momento della decorrenza della prescrizione  dell’azione risarcitoria.

Su tale questione si registrano diversi orientamenti della giurisprudenza di legittimità.

In un primo tempo  era stato affermato che la prescrizione iniziasse a decorrere dal giorno in cui, estinto il diritto dell'Istituto assicuratore al versamento dei contributi, il danno per il lavoratore potesse considerarsi già avverato.  Da tale giorno inizierebbe perciò a decorrere il termine di prescrizione del diritto al risarcimento.

In seguito, tale orientamento è stato contestato in base all’assunto che quando il danno da omessa contribuzione consista nella perdita della pensione, esso non può considerarsi realizzato prima che il lavoratore abbia raggiunto l'età pensionabile. Solo da questo momento, pertanto, inizierebbe la decorrenza della  prescrizione.

Tale ultimo orientamento ha prevalso nel caso di specie e la Cassazione ha tenuto a specificare che le pronunce attestanti l’inizio della prescrizione dal giorno in cui l'Istituto assicuratore comunica il provvedimento negativo del beneficio debbono considerarsi superate.

Valerio Pollastrini

La comunicazione ai lavoratori collocati in mobilità deve consentire la comprensione delle ragioni della scelta


In materia di licenziamenti collettivi, la sentenza della Corte di Cassazione n.19576 del 26 agosto 2013 ha fornito alcuni chiarimenti sui contenuti della comunicazione ai lavoratori successiva alle procedure sindacali o amministrative per il collocamento in mobilità.

Nelle procedure di mobilità, il datore di lavoro deve fornire nella prevista comunicazione una puntuale indicazione dei criteri di scelta e delle modalità applicative.

Ciò comporta che, anche nel caso in cui vi sia un solo criterio prescelto, il datore di lavoro ha l’obbligo di specificare nella suddetta comunicazione le sue modalità applicative, in modo che la stessa sia sufficiente ad informare adeguatamente il lavoratore sulle motivazioni che hanno indotto al suo collocamento in mobilità rispetto ad altri dipendenti.

In sostanza il lavoratore rientrante nel licenziamento collettivo deve essere messo nelle condizioni di contestare, eventualmente, l’illegittimità della scelta che lo ha coinvolto nel caso in cui, in base al criterio di selezione, altri e non lui avrebbero dovuto essere collocati in mobilità.

In base a quanto appena riepilogato, dopo l’accordo sindacale o la conclusione della procedura amministrativa per il collocamento in mobilità, la comunicazione con la quale l’azienda comunica il recesso ai lavoratori deve garantire ad essi una simile consapevolezza.

Nel caso di specie la Cassazione ha ritenuto non corretta la sentenza di merito che aveva dichiarato illegittima la procedura di mobilità perché la comunicazione conteneva l'elenco dei soli lavoratori destinatari del provvedimento espulsivo e non di tutti i dipendenti fra i quali era stata operata la scelta.

In particolare la Corte di Appello aveva errato nel non prendere in considerazione il fatto che tale comunicazione indicava specificamente il criterio di scelta, individuato in sede di accordo sindacale  nel possesso dei requisiti per l'accesso alla pensione di anzianità o vecchiaia, la cui natura oggettiva rendeva superflua la comparazione con i lavoratori privi del requisito stesso.

Valerio Pollastrini

Per l’efficacia della conciliazione l’assistenza del sindacalista deve essere effettiva


Nella sentenza n.24024 del 23 ottobre 2013 la Corte di Cassazione ha affermato che  le rinunzie e transazioni in sede sindacale, aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge o di contratti collettivi,  non sono impugnabili solo a condizione che l'assistenza prestata dai rappresentati sindacali sia stata effettiva, consentendo al lavoratore di conoscere quali siano i diritti ai quali rinunzia ed in quale misura, precisando, inoltre, che, nel caso di una transazione,  dall'atto è necessario che si evinca la "res dubia" oggetto della lite e le "reciproche concessioni" in cui si risolve il contratto transattivo.

Il caso è quello di due lavoratrici, prive di un regolare inquadramento, che avevano svolto la propria prestazione per conto della Procura Generalizia Congregazione Suore ed avevano sottoscritto un verbale di conciliazione in sede sindacale, nel quale escludevano di aver  lavorato in condizioni di subordinazione, rinunciando ad ogni diritto derivante dall'attività svolta.

Le lavoratrici si erano successivamente rivolte al Tribunale di Roma, chiedendo l'accertamento della natura subordinata del loro rapporto ed  il pagamento di somme a titolo di differenze retributive.

Il datore di lavoro aveva opposto l’inammissibilità della domanda in virtù della precedente sottoscrizione della conciliazione in sede sindacale.

Il Tribunale, nell’accogliere parzialmente le richieste delle lavoratrici, aveva condannato l'azienda al pagamento di una somma inferiore rispetto a quella richiesta.

Nel secondo grado di giudizio, la Corte d'Appello di Roma aveva invece giudicato inammissibili le domande delle lavoratrici a causa dell'intervenuta conciliazione.

Le ricorrenti si erano quindi rivolte alla Corte di Cassazione, lamentando, in particolare, che il giudizio di appello non avesse verificato l'effettiva partecipazione del rappresentante del sindacato alla conciliazione e la reciprocità delle concessioni.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso, censurando l’esigua motivazione fornita dalla Corte di Appello, dalla quale emergeva l’assenza di una verifica circa l’effettività dell’assistenza sindacale.

La Corte di merito si era limitata ad affermare che la conciliazione in sede sindacale era avvenuta con l'assistenza di un avvocato e che i conciliatori avevano avvertito le parti circa gli effetti propri della conciliazione ai sensi degli arti 2113 c.c. e 411 c.p.c.

Quanto all’assistenza di un legale, la Cassazione ha ricordato come essa non costituisca  una condizione richiesta ai fini della validità della conciliazione in sede sindacale, mentre il semplice riferimento agli effetti della conciliazione, dei quali le lavoratrici sarebbero state informate, rappresenta, invece, una considerazione di per sé inadeguata perché risolve l'assistenza nell'indicazione dell'effetto della non impugnabilità dell'atto transattivo, senza considerare che l'assistenza sindacale deve permettere al lavoratore di comprendere a quali diritti rinunzia ed in che misura.

La carenza maggiore del giudizio di merito concerne però l'analisi dei contenuti della conciliazione. La Suprema Corte ha infatti ricordato che il contenuto di una transazione è costituito  dal negozio  con cui le parti pongono fine ad una lite già cominciata o potenziale, facendosi reciproche concessioni.

Nel caso in esame  è stato omesso di verificare se ed in cosa consistono le reciproche concessioni e, quanto alla "res dubia", la si è risolta nel carattere subordinato o autonomo del rapporto, mentre dalla stessa sentenza si coglie la ben più vasta articolazione delle questioni in discussione e dei diritti controversi.

Per tali ragioni la Corte ha cassato la sentenza impugnata, rinviando il giudizio alla medesima Corte d'appello che, in diversa composizione, dovrà verificare  l’ammissibilità dell'impugnazione della conciliazione attraverso un’analisi sull'effettività della assistenza sindacale e sulla sussistenza degli elementi costitutivi dell'atto di transazione.

Valerio Pollastrini

Infortunio del lavoratore in trasferta

CIRCOLARE INAIL N.52 DEL 23 OTTOBRE 2013


Quadro Normativo
Dpr 30 giugno 1965, n. 1124: “Testo Unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali”. Articolo 2.

Decreto legislativo 23 febbraio 2000, n. 38: “Disposizioni in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, a norma dell’art.55, comma 1, della legge 17 maggio 1999, n.144”. Articolo 12;

Linee guida dell’8 luglio 1999: “Criteri per la trattazione dei casi di infortunio sul lavoro con particolare riferimento alla nozione di rischio generico aggravato”.

Premessa
Con riferimento all’argomento in oggetto, sono pervenuti numerosi quesiti in merito alla qualificazione, come infortuni in itinere ovvero in attualità di lavoro, di eventi lesivi occorsi a lavoratori in missione e/o in trasferta, con particolare riguardo a quelli avvenuti durante il tragitto dall’abitazione al luogo in cui deve essere svolta la prestazione lavorativa e viceversa, nonché durante il tragitto dall’albergo del luogo in cui la missione e/o trasferta deve essere svolta al luogo in cui deve essere prestata l’attività lavorativa.

Perplessità sono sorte anche in merito all’indennizzabilità degli infortuni occorsi all’interno della stanza d’albergo in cui il lavoratore si trova a dimorare temporaneamente.

Con la presente circolare, si forniscono i chiarimenti richiesti prendendo le mosse dall’inquadramento generale degli istituti dell’occasione di lavoro e dell’infortunio in itinere, nonché dell’evoluzione giurisprudenziale fornita in materia dalla giurisprudenza di legittimità, per poi verificare come gli stessi debbano trovare applicazione nelle ipotesi in cui l’infortunio sia occorso durante la missione e/o la trasferta del lavoratore.

Occasione di lavoro e infortunio in itinere. evoluzione giurisprudenziale
 
Occasione di lavoro
Come noto, dopo la originaria impostazione del concetto di occasione di lavoro secondo la quale il diritto alle prestazioni assicurative doveva essere condizionato dal presupposto che l’evento fosse riconducibile a un rischio specifico, proprio dello svolgimento della prestazione lavorativa dell’assicurato, l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità ha registrato il più favorevole orientamento consistente nell’ammettere l’indennizzabilità di tutti gli infortuni derivanti dai rischi connessi con il lavoro inteso nella sua accezione più ampia. Da ciò è derivata la tutelabilità di tutte le attività prodromiche e strumentali all’esecuzione della prestazione lavorativa, necessitate dalla stessa e alla stessa funzionalmente connesse.

Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità è ormai pacificamente orientata nel senso di ritenere che l’unico limite all’indennizzabilità di un infortunio debba essere ravvisato nel rischio elettivo in quanto esso, essendo estraneo e non attinente all’attività lavorativa, è correlato a una scelta arbitraria del lavoratore il quale crea e affronta volutamente, sulla base di impulsi o ragioni del tutto personali, una situazione diversa da quella inerente all’attività lavorativa, ponendo così in essere una causa interruttiva del nesso tra lavoro, rischio ed evento(1).
 
Infortunio in itinere
Per quanto riguarda l’indennizzabilità dell’infortunio in itinere, l’art. 12 d.lgs. 38/2000 ha, come noto, recepito i criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione la quale aveva costantemente affermato il principio in base al quale, affinché si verificasse l’estensione della copertura assicurativa, occorreva che il comportamento del lavoratore fosse giustificato da un’esigenza funzionale alla prestazione lavorativa, tale da legarla indissolubilmente all’attività di locomozione.

 Recependo tali criteri, il suddetto art. 12 ha sancito espressamente la tutela assicurativa degli eventi infortunistici che si sono verificati durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro, nei limiti in cui l’assicurato non aggravi, per suoi particolari motivi o esigenze personali, i rischi propri della condotta extralavorativa connessa alla prestazione per ragioni di tempo e di luogo, interrompendo così il collegamento che giustifica la copertura assicurativa.

Per l’indennizzabilità dell’infortunio in itinere, occorre, dunque, che esso si verifichi nel tragitto tra l’abitazione e il luogo di lavoro, e che il percorso venga effettuato a piedi o con mezzo pubblico di trasporto, ovvero con mezzo privato se necessitato.
 

Inquadramento dell’infortunio occorso in missione e in trasferta
Tutto ciò considerato, occorre esaminare come gli istituti in questione si applicano nel caso in cui il lavoratore venga inviato a svolgere la propria attività lavorativa in un luogo differente rispetto a quello in cui essa viene abitualmente prestata.
 

Infortuni occorsi durante il tragitto dall’abitazione al luogo in cui deve essere svolta la prestazione lavorativa e viceversa

Preliminarmente, occorre evidenziare che i rischi del percorso che collega l’abitazione al luogo di lavoro abituale dipendono anche dalla scelta del lavoratore riguardo al luogo dove stabilire il centro dei propri interessi personali e familiari, per cui detto percorso non è determinato da esigenze lavorative imposte dal datore di lavoro ma dipende anche da scelte di vita del lavoratore.

Diverso è il caso del lavoratore in missione e/o trasferta poiché, in tale situazione, il tragitto dal luogo in cui si trova l’abitazione del lavoratore a quello in cui, durante la missione, egli deve espletare la prestazione lavorativa, non è frutto di una libera scelta del lavoratore ma è imposto dal datore di lavoro. Ne consegue che la circostanza che il lavoratore si trovi in missione vale, di per sé, a connotare in modo differente l’evento infortunistico che si è verificato lungo il tragitto tra l’abitazione e una sede di lavoro temporaneamente diversa, rispetto a quello che si verifichi lungo il tragitto tra l’abitazione e la sede abituale di servizio.

La missione, infatti, è caratterizzata da modalità di svolgimento imposte dal datore di lavoro con la conseguenza che tutto ciò che accade nel corso della stessa deve essere considerato come verificatosi in attualità di lavoro, in quanto accessorio all’attività lavorativa e alla stessa funzionalmente connesso, e ciò dal momento in cui la missione ha inizio e fino al momento della sua conclusione.

Ovviamente, l’evento non può ritenersi indennizzabile qualora avvenga con modalità e in circostanze per le quali non si possa ravvisare alcun collegamento finalistico e topografico con l’attività svolta in missione e/o trasferta, e cioè tutte le volte in cui il soggetto pone in essere un rischio diverso e aggravato rispetto a quello normale, individuato come tale secondo un criterio di ragionevolezza.

Pertanto, le uniche due cause di esclusione della indennizzabilità di un infortunio occorso a un lavoratore in missione e/o trasferta si possono rinvenire:

a) nel caso in cui l’evento si verifichi nel corso dello svolgimento di un’attività che non ha alcun legame funzionale con la prestazione lavorativa o con le esigenze lavorative dettate dal datore di lavoro;

b) nel caso di rischio elettivo, cioè nel caso in cui l’evento sia riconducibile a scelte personali del lavoratore, irragionevoli e prive di alcun collegamento con la prestazione lavorativa tali da esporlo a un rischio determinato esclusivamente da tali scelte.

 
Infortuni occorsi durante gli spostamenti effettuati dal lavoratore per recarsi dall’albergo al luogo in cui deve essere svolta la prestazione lavorativa e viceversa.

Per le stesse considerazioni sopra svolte, anche gli infortuni occorsi durante gli spostamenti effettuati dal lavoratore per recarsi dall’albergo al luogo in cui deve essere svolta la prestazione lavorativa e viceversa devono essere trattati come infortuni in attualità di lavoro e non come infortuni in itinere.

 

Infortuni occorsi all’interno della stanza d’albergo in cui il lavoratore si trova a dimorare temporaneamente.

Con riferimento all’infortunio occorso in albergo, occorre rilevare che esso non è equiparabile a quello avvenuto presso la privata abitazione, la cui indennizzabilità è stata esclusa dalla Suprema Corte sulla base di due elementi:

a) la oggettiva difficoltà di stabilire se l’atto di locomozione all’interno dell’abitazione sia o meno funzionale all’espletamento dell’attività lavorativa, essendo impossibile “certificare una qualsiasi forma di collegamento tra (abituali) condotte spiegate all’interno dell’abitazione e dei luoghi condominiali e attività lavorativa”;

b) il maggiore controllo che la natura dei luoghi comporta sulle condizioni di rischio da parte del soggetto assicurato.

L’iter logico-argomentativo sviluppato dalla Suprema Corte nella sentenza citata in nota, consente agevolmente di desumere a contrariis che tutti gli eventi occorsi al lavoratore in missione e/o trasferta, dal momento in cui questi lascia la propria abituale dimora fino a quello in cui vi fa rientro, derivanti dal compimento anche degli atti prodromici e strumentali alla prestazione lavorativa, siano indennizzabili quali infortuni avvenuti in occasione di lavoro, in attualità di lavoro, proprio perché condizionati dalla particolare situazione determinata dalla condizione di missione e/o trasferta.

Nessuno dei due elementi individuati dalla Corte di Cassazione per escludere la indennizzabilità degli eventi verificatisi nella privata abitazione, possono riscontrarsi nella fattispecie del lavoratore in missione e/o trasferta. Gli eventi accaduti in una stanza di albergo, infatti, non sono parificabili a quelli avvenuti nella privata abitazione, in primo luogo poiché il soggiorno in albergo è evidentemente necessitato dalla missione e/o trasferta – e perciò è necessariamente connesso con l’attività lavorativa - e in secondo luogo poiché il lavoratore, con riguardo al luogo in cui deve temporaneamente dimorare, non ha quello stesso controllo delle condizioni di rischio che ha, al contrario, nella propria abitazione.

Conclusioni
Alla luce delle considerazioni precedentemente esposte, si devono ritenere meritevoli di tutela, nei limiti sopra delineati, tutti gli eventi occorsi a un lavoratore in missione e/o trasferta dal momento dell’inizio della missione e/o trasferta fino al rientro presso l’abitazione.

Efficacia nel tempo
Le disposizioni di cui alla presente circolare si applicano ai casi futuri nonché alle fattispecie in istruttoria e a quelle per le quali sono in atto controversie amministrative o giudiziarie o, comunque, che non siano prescritte o decise con sentenza passata in giudicato.


(1) Cfr Linee guida dell’8 luglio 1999

martedì 29 ottobre 2013

Legittimo licenziare se il dipendente non è in grado di svolgere il proprio ruolo


Nella sentenza n.12561 del 22 maggio 2013 la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento irrogato ad un dipendente risultato non in grado di svolgere il proprio ruolo.

La Corte ha ricordato come il giudice, per accertare  la legittimità della sanzione del licenziamento del dipendente inidoneo a ricoprire in azienda il ruolo assegnatogli, debba compiere una valutazione  caso per caso.

Nella sentenza in commento, la dipendente, assunta come dirigente psicologo, non solo si era dimostrata non all’altezza delle mansioni attribuitegli, ma aveva palesato, altresì, l’incapacità di relazionarsi con i propri colleghi.

Le prove presentate dal datore di lavoro avevano indotto i giudici dei diversi gradi di  merito a giustificare il recesso.

Anche la Cassazione ha rigettato la difesa prospettata dal lavoratore,rilevando che , nella circostanza in esame, il materiale probatorio acquisito legittimasse il recesso intimato dal datore di lavoro.

Valerio Pollastrini

Il patteggiamento in un processo penale per violenza sessuale legittima il licenziamento del lavoratore


Nella sentenza n.2168 del 30 gennaio 2013 la Corte di Cassazione ha confermato la rilevanza del patteggiamento del lavoratore nel corso di un processo penale per fatti estranei al contesto lavorativo ai fini della valutazione del giudice del lavoro.

Il caso in commento è quello di un dipendente di Poste Italiane, licenziato in tronco in seguito al suo patteggiamento  nel processo in cui era imputato per il delitto di violenza sessuale.

Il lavoratore aveva contestato la legittimità del recesso, sostenendo che le questioni scaturenti dal rito penale non potessero avere valenza probatoria in sede civile poiché, a seguito del patteggiamento, i "fatti penali" restavano congelati in una posizione meramente indiziaria, incapaci pertanto di essere assunti a fondamento di una giusta causa di licenziamento anche per il fatto che i fatti contestati, comunque, non avevano alcun riflesso sul rapporto di lavoro.

Questa tesi non è stata condivisa nei primi due gradi di giudizio ed è stata respinta anche dalla Suprema Corte.

La Cassazione, in proposito, ha affermato che in sede civile può legittimamente darsi una piena efficacia probatoria alla sentenza di patteggiamento, nel caso in cui l’imputato non contesti la propria responsabilità ma, anzi, accetti la condanna chiedendone e permettendone l’applicazione.

Nel caso in cui il processo penale sia stato definito per mezzo del patteggiamento le risultanze delle indagini preliminari possono quindi essere valutate dal giudice di merito e, nel caso in cui costituiscano violazione dei doveri fondamentali nascenti dal rapporto di lavoro, consentono al datore di lavoro di licenziare legittimamente il dipendente.

A conferma della tesi appena esposta la Corte ha richiamato quanto disposto dalla Corte Costituzionale (1) a proposito dell’erroneità della tesi di chi voglia ritenere che gli effetti del patteggiamento debbano ontologicamente differenziarsi da quelli della sentenza ordinaria, sancendo che la sentenza penale ex art. 444 c.p.p. costituisce elemento di prova per il giudice di merito il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegarne le ragioni.

Sulla base di questo principio la Corte di Cassazione ha fondato le motivazioni con le quali  ha respinto le richieste del lavoratore.

Per concludere, gli ermellini hanno precisato che i fatti addebitati al lavoratore nel corso del processo penale, pur se verificatisi al di fuori dell’ambito lavorativo, fossero idonei, per il loro  disvalore sociale, a ripercuotersi negativamente sull’immagine dell’azienda.

Valerio Pollastrini


(1) - Corte Costituzionale 18 dicembre 2009, n. 336;

Licenziamento per infedeltà nei confronti del datore di lavoro


Nella sentenza n.10959 del 9 maggio 2013 la Corte di Cassazione si è pronunciata a proposito della legittimità di un licenziamento irrogato ad un lavoratore per infedeltà nel confronti del datore di lavoro.

Il caso è quello del dipendente di un’azienda di riscossione crediti. Il lavoratore aveva il compito di notificare le cartelle esattoriali, oltre ad altri adempimenti connessi al recupero delle somme iscritte a ruolo.  

Dopo aver accertato che il lavoratore aveva suggerito ad alcuni  debitori esecutati le modalità oppositive rispetto all’esecuzione, il datore di lavoro aveva provveduto al suo licenziamento per giusta causa.

Il ricorso con il quale il lavoratore aveva richiesto la ricollocazione al lavoro era stato respinto nel primo grado di giudizio ma successivamente accolto dalla Corte di Appello.

L’azienda aveva quindi ricorso in Cassazione che ne ha accolto le doglianze.

La Suprema Corte ha sconfessato l’operato del giudice di appello che, nell’esprimere un giudizio di sproporzione della sanzione irrogata rispetto alla condotta contestata ed accertata, aveva del tutto omesso di valutare alcune circostanze di fatto poste in relazione con altre condotte accertate, rivelatrici di un comportamento del dipendente contrastante con i doveri di correttezza e buona fede nell’esecuzione del rapporto, così giustificando la risoluzione.

La Cassazione ha precisato come i giudici di merito, nel valutare la condotta del dipendente, avrebbe dovuto tener conto della delicatezza delle funzioni svolte. Quella dell’ufficiale di riscossione di tributi è un’attività operata a diretto contatto con i soggetti tenuti all’adempimento di obbligazioni connesse ad un pubblico interesse. Per tale motivo al lavoratore veniva richiesto un comportamento improntato ad una particolare correttezza e trasparenza nell’esecuzione della prestazione.
Ai fini della legittimità di un licenziamento per giusta causa, la Suprema Corte ha ricordato che, per accertare la proporzionalità della sanzione, è necessaria una valutazione della condotta complessiva del lavoratore e non relativa ad un singolo episodio.

Dopo questa premessa la Corte ha deciso per la cassazione della sentenza di appello in quanto insufficientemente motivata, disponendo che la valutazione sulle incidenze della condotta tenuta dal dipendente, debba essere nuovamente valutata dal giudice del rinvio, che dovrà dunque provvedere  definitivamente alla reintegra o al licenziamento del lavoratore.

Valerio Pollastrini

Interventi sul costo del lavoro nella legge di stabilità: ennesimo bluff


Per quanto riguarda la materia lavoro, gli interventi previsti nella bozza della Legge di Stabilità, finalizzati alla riduzione   del c.d. cuneo fiscale, riguardano le detrazioni Irpef, i premi Inail e la restituzione del contributo addizionale ASpI in caso di stabilizzazione dei contratti a tempo determinato.

Quelle che da tempo vengono annunciate come misure di grande impatto, da un primo esame  appaiono, nella sostanza, del tutto inadeguate.

L’esiguità del risparmio previsto per aziende e lavoratori sembra, infatti,   insufficiente a compensare i concomitanti  aumenti impositivi, come ad esempio quello derivante dall’introduzione della Tasi che, moltiplicando il suo peso rispetto alla Tares e lasciando ai Comuni la facoltà di determinare l’aliquota, crea il presupposto per una spesa complessivamente superiore rispetto agli anni precedenti.

Così come sono stati strutturati, gli interventi nell’ambito lavorativo determinano inoltre seri problemi di equità. Oltre ai lavoratori autonomi, sono esclusi dai benefici gli incapienti e i pensionati, ossia circa 25 mln di soggetti che rappresentano  anche le categorie in maggiore difficoltà.

Detrazioni Irpef
Ai fini Irpef le novità riguardano i redditi da lavoro dipendente compresi nella fascia di reddito tra gli 8.000 € ed i 55.000 € annui.

Per i lavoratori la rimodulazione delle detrazioni si tradurrà in un risparmio d’imposta annuale  tra i 12,00 € ed i 190,00 €.  I maggiori benefici spetteranno ai soggetti con redditi imponibili annui compresi tra 15.000 € e 20.000 €.

Nessuna incidenza, in ogni caso, verrà attribuita al carico familiare, in quanto le detrazioni riservate al numero dei familiari a carico non sono state modificate dalla bozza di Ddl.

Riduzione dei premi Inail e del contributo ASpI
Sul fronte dei costi a carico dell’azienda è prevista la riduzione del premio Inail che, dalle prime stime, dovrebbe comportare un risparmio massimo del 2% sul versamento annuale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro.

Sicuramente positiva, invece, la restituzione integrale del contributo addizionale ASpI, pari all’1,4%, nel caso di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

Valerio Pollastrini

domenica 27 ottobre 2013

Il ripetuto abbandono del posto di lavoro legittima il licenziamento


Il caso in commento è quello che ha riguardato un lavoratore licenziato in seguito alle ripetute e prolungate assenze dal servizio durante l’orario di lavoro per fini personali.

Nella sentenza n.21203 del 17 settembre 2013 la Corte di Cassazione, confermando quanto disposto nei precedenti giudizi di merito, ha ritenuto legittimo il licenziamento.

La Suprema Corte ha preliminarmente ricordato come i giudici di merito, dopo l’esame del materiale probatorio, avessero correttamente accertato la gravità delle condotte dal dipendente, tale da giustificarne il licenziamento per giusta causa.

La Corte di Appello, in particolare, aveva evidenziato che la condotta del lavoratore fosse stata ben più grave delle fattispecie elencate nella contrattazione collettiva e per tale motivo il datore di lavoro, sia nella contestazione dell’addebito in sede disciplinare che nella lettera con la quale aveva intimato il recesso,  aveva esplicitamente fatto riferimento all’art.2119 del codice civile, legittimante il licenziamento in tronco per comportamenti lesivi del vincolo fiduciario tra dipendente e datore di lavoro.  

La sentenza ha ricordato come quello contestato non fosse stato un episodio isolato, in quanto, in un breve lasso di tempo, il lavoratore aveva reiterato la stessa condotta.

Il giudice di appello aveva infatti riscontrato che gli accertamenti compiuti dal datore di lavoro si fossero svolti nel corso di due distinti archi temporali, fugando così ogni dubbio su una presunta occasionalità del comportamento del dipendente, risultato il medesimo in   entrambi i periodi. Ciò aveva  acclarato  una condotta sostanzialmente abituale, per la quale il licenziamento in tronco è stato ritenuto corretto.
 
Valerio Pollastrini

Quando le maggiori retribuzioni costituiscono un uso aziendale


Nella sentenza n.21345 del 18 settembre 2013 la Corte di Cassazione ha indicato i presupposti per il consolidamento degli usi aziendali, confermando la possibilità che tra essi possano essere annoverati i compensi costantemente erogati ai dipendenti in misura superiore rispetto ai minimali contrattuali.

Unitamente ai regolamenti aziendali e ai contratti collettivi, l’uso aziendale rientra nel novero delle c.d. “fonti sociali”, così definite perché dirette a conseguire un'uniforme disciplina dei rapporti con riferimento alla collettività dei lavoratori dì un'azienda e non la realizzazione di meri interessi individuali.

Gli usi, pertanto, producono la loro efficacia sui singoli rapporti individuali con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale.

Affinché possa consolidarsi l’uso aziendale è indispensabile il protrarsi nel tempo di comportamenti aventi lo stesso contenuto che abbiano carattere generale, vale a dire applicati nei confronti di tutti i  dipendenti dell'azienda.

L’uso produce i suoi effetti anche nei confronti dei lavoratori entrati in azienda successivamente alla sua formazione.

La Suprema Corte ribadisce, infine, che per accertare la configurazione di un uso aziendale sia necessario provare la costante e generalizzata reiterazione di una medesima condotta datoriale.

Valerio Pollastrini

Il datore di lavoro non può verificare i siti web visitati dal proprio dipendente


Nell’ambito di un procedimento disciplinare un’azienda aveva contestato al proprio dipendente la frequente navigazione in internet per finalità personali durante l’orario di lavoro. L’accertamento del datore di lavoro si era esteso alla verifica dei singoli siti web visitati.

Le modalità di verifica si erano spinte fino ad individuare “dati sensibili” relativi a convinzioni religiose e politiche nonché alle tendenze sessuali del dipendente ed il Garante della privacy era intervenuto vietando all’azienda il trattamento dei dati personali.

L’analisi dei siti visitati dal lavoratore risultava del tutto estranea alla finalità perseguita dall’azienda, alla quale, ai fini disciplinari, sarebbe  bastato dimostrare la connessione ad internet nei tempi di lavoro.

Nella sentenza n.18443/2013 la Corte di Cassazione ha confermato il divieto imposto dal Garante della privacy, ribadendo quanto disposto dal tribunale di merito che aveva accertato come il trattamento dei dati sensibili fosse avvenuto in modo eccedente rispetto alla finalità del medesimo.

Corrette, pertanto, le argomentazioni del Garante, a detta del quale la ricorrente avrebbe potuto dimostrare l’illiceità del comportamento del dipendente, limitandosi a provare in altro modo l’esistenza di accessi indebiti alla rete e i relativi tempi di collegamento.

Il datore di lavoro aveva invece operato un trattamento diffuso di numerose altre informazioni indicative anche degli specifici contenuti degli accessi dei singoli siti web visitati nel corso delle varie navigazioni, operando, per la Cassazione, un trattamento di dati eccedente rispetto alle finalità perseguite.

La Suprema Corte ha quindi ricordato che le informazioni di natura sensibile possono essere trattate dal datore di lavoro senza il consenso dell’interessato solamente nel caso in cui  il trattamento necessario per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria sia indispensabile, cosa esclusa per il caso di specie.

Valerio Pollastrini

venerdì 25 ottobre 2013

Cessate dal 2013 le agevolazioni per l’assunzione di lavoratori iscritti nelle liste di mobilità


Con la Circolare n.150 del 25 ottobre 2013 l’Inps ha fornito alcuni chiarimenti sugli incentivi previsti in passato per l’assunzione dei lavoratori iscritti nelle liste di mobilità.

In seguito alla mancata proroga,  per il 2013, delle norme che prevedono l'iscrizione nelle liste di mobilità dei lavoratori licenziati per giustificato motivo oggettivo, nonché degli incentivi inerenti al loro reimpiego (cosiddetta piccola mobilità), l’Istituto, con la Circolare n.13/2013, aveva chiarito che non è possibile riconoscere le agevolazioni per le assunzioni, effettuate nel 2013, di lavoratori licenziati nel 2013, riservandosi di fornire indicazioni sulle altre fattispecie.

In virtù dei chiarimenti forniti di recente dal Ministero del Lavoro, la Circolare in commento precisa quanto segue:

a.     non è possibile riconoscere le agevolazioni per le assunzioni, effettuate nel 2013, di lavoratori licenziati prima del 2013;

b.     non è possibile riconoscere  le agevolazioni per le proroghe e le trasformazioni a tempo indeterminato, effettuate nel 2013, di rapporti agevolati instaurati prima del 2013;

c.      in via cautelare deve ritenersi anticipata al 31.12.2012 la scadenza dei benefici connessi a rapporti agevolati, instaurati prima del 2013 con lavoratori iscritti nelle liste di mobilità a seguito di licenziamento individuale.

L’Inps ha inoltre specificato che per le assunzioni, le proroghe e le trasformazioni effettuate nel 2013, riguardanti lavoratori licenziati per giustificato motivo oggettivo, potrà invece essere fruito l’incentivo previsto dal decreto direttoriale del Ministero del Lavoro 264/2013 del 19 aprile 2013, come modificato dal decreto direttoriale 390/2013 del 3 giugno 2013. Si tratta del c.d. “bonus di 190 euro”. 


Valerio Pollastrini

Diritto all’indennità ASpI anche in caso di licenziamento disciplinare


Con l’Interpello n.29 del 23 ottobre 2013 il Ministero del lavoro ha risposto al quesito formulato dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro a proposito del diritto all’ASpI dei dipendenti licenziati per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa.
L’istante aveva chiesto se la fattispecie  del licenziamento per colpa potesse costituire un’ipotesi di disoccupazione “involontaria”, per la quale è prevista la concessione dell’indennità di disoccupazione.

A parere del Ministero la funzione dell’Aspi risponde all’esigenza di fornire un’indennità economica ai lavoratori colpiti da disoccupazione involontaria, ragione per cui è stato introdotto,  nei casi di interruzione dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato,  un contributo a carico del datore di lavoro  finalizzato al finanziamento di tale indennità.
Dal dettato normativo di riferimento si evince che le cause di esclusione dall’ASpI e dal contributo a carico dell’azienda sono tassative e riguardano i casi di dimissioni (con le sole eccezioni delle dimissioni per giusta causa) e di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro.

Sulla base di una simile premessa non sembra quindi potersi escludere  che l’ASpI e il contributo da licenziamento siano corrisposti in ipotesi di licenziamento disciplinare, così come del resto ha inteso chiarire l’Inps, che, con diverse circolari (1), ha chiarito le ipotesi di esclusione dalla corresponsione dell’indennità e dal contributo in parola senza includervi la fattispecie del licenziamento disciplinare.
Giova inoltre ricordare quanto disposto dalla Corte Costituzionale (2) che, a proposito dell’indennità di maternità, ha sancito che,  nei casi di licenziamento disciplinare, la sua mancata corresponsione violerebbe gli artt. 31 e 37 della Costituzione. Alla protezione della maternità, infatti, deve essere  attribuito un rilievo superiore rispetto alla ragione del licenziamento, specie in virtù del fatto che la condotta colposa del lavoratore trova nel recesso stesso una corrispondente sanzione.

Per il Ministero la fattispecie in argomento deve essere analizzata utilizzando il medesimo ragionamento adottato dalla Corte Costituzionale a proposito della corresponsione dell’indennità di maternità. Anche nel caso di specie il licenziamento disciplinare può essere considerato un’adeguata risposta dell’ordinamento al comportamento del lavoratore. Negare in simili casi la corresponsione dell’ ASpI costituirebbe quindi un’ulteriore reazione sanzionatoria non giustificata.
Inoltre il licenziamento disciplinare non può essere incluso tra le fattispecie di  disoccupazione volontaria. La sanzione del licenziamento rappresenta, infatti, una conseguenza non automatica di una condotta posta in essere dal lavoratore. A questo proposito la Corte di Cassazione ha in passato avuto modo di precisare che  l’adozione del provvedimento disciplinare è sempre rimessa alla libera determinazione e valutazione del datore di lavoro e costituisce esercizio di potere discrezionale”, senza contare l’impugnabilità dello stesso (3). Negare, in tali casi, la protezione assicurata dall’ ASpI potrebbe risultare  iniquo, specie nell’ipotesi in cui il giudice ordinario dovesse successivamente ritenere illegittimo il licenziamento impugnato.

Sulla base delle suddette valutazioni il Ministero del lavoro ha quindi confermato, in caso di recesso per motivi disciplinari, il diritto del lavoratore alla corresponsione dell’ASpI, nonché l’obbligo del datore di lavoro al pagamento del contributo aggiuntivo per il licenziamento.

Valerio Pollastrini


(1)   - cfr. INPS circc. n. 140/2012, 142/2012, 44/2013;

(2)   – Corte Costituzionale, sentenza n.405/2001;

(3)   - Cass. sent. 25 luglio 1984 n. 4382;

giovedì 24 ottobre 2013

Licenziamento per omessa cura di un bene aziendale


Con la sentenza n.23238 del 14 ottobre 2013 la Corte di Cassazione ha giudicato illegittimo il licenziamento irrogato ad un dipendente ritenuto responsabile del furto del furgone aziendale a causa di una condotta priva dell’ordinaria diligenza richiesta per l’esecuzione della prestazione di lavoro.

Il fatto
Il caso è quello del dipendente di un’azienda di vendita all’ingrosso di generi alimentari  che si occupava, in seguito agli ordini effettuati dai rappresentanti, di caricare la merce sui furgoni dopo averla prelevata dagli scaffali e dalle celle frigorifere collocate in deposito per poi scaricarla a destinazione, incassando il corrispettivo delle relative vendite.

In data 23 giugno 1998, dopo aver effettuato numerose altre consegne, mentre stava scaricando la merce presso un cliente, il suddetto lavoratore era rimasto vittima del furto del furgone aziendale.

Tale episodio aveva comportato delle conseguenze sullo  stato fisico del lavoratore,  al punto che il giorno successivo era stato costretto ad assentarsi dal lavoro.

Dopo essere stato sospeso in via cautelativa, in data 27 giugno 1998  aveva ricevuto una contestazione disciplinare per aver lasciato incustodito il  furgone, con sportelli aperti e chiavi inserite nel cruscotto, facilitandone così il furto.

Il 2 luglio del 1998 l’azienda aveva provveduto ad un’ulteriore contestazione disciplinare relativa all’assenza dal servizio del 24 giugno 1998.

Nonostante avesse provveduto a fornire le proprie giustificazioni, il lavoratore era stato licenziato con lettera del 17 luglio 1998.

In seguito all’atto di recesso il dipendente si era rivolto al Tribunale di Salerno, lamentando la nullità ovvero l’illegittimità del licenziamento, perché non supportato da giustificato motivo ed in ogni caso sproporzionato.

Svolgimento del processo
Il Tribunale aveva accolto la domanda, dichiarando illegittimo il licenziamento con le conseguenze di cui all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.

L’azienda aveva quindi ricorso alla Corte di  Appello di Salerno che, pur ribadendo l’illegittimità del recesso, si era limitata a riconoscere, in favore del lavoratore, un risarcimento del danno pari a tre mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

In seguito al giudizio di appello l’azienda aveva ricorso in cassazione.

Il datore di lavoro lamentava, in particolare, che, ove valutate più attentamente le circostanze del caso, , il giudice di appello avrebbe dovuto ritenere sussistente la giusta causa di licenziamento e, a tal proposito, aveva formulato un articolato quesito di diritto, chiedendo alla Corte se nell’ipotesi di inadempienza contrattuale, costituita dalla omessa custodia di un bene aziendale, la caduta del vincolo fiduciario dovesse assumere valenza prioritaria, agli effetti della legittimità del recesso, rispetto alla disponibilità risarcitoria e se la mera offerta di risarcimento del danno integrasse una condizione ostativa alla caduta del rapporto fiduciario.

La pronuncia della Cassazione
Per la Suprema Corte un simile quesito è inammissibile per la sua genericità e perché formulato in modo tale da richiedere alla Corte un inammissibile accertamento di fatto.

A tal proposito la Cassazione ha ricordato che il quesito di diritto deve compendiare: a) la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito; b) la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice; c) la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie.

In tema di licenziamento individuale per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo,  il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell’illecito commesso - istituzionalmente rimesso al giudice di merito - si sostanzia nella valutazione della gravità del comportamento imputato al lavoratore in relazione a tutte le circostanze del caso, specie con riferimento alle particolari condizioni ed avvenimenti in cui è posto in essere, ai suoi modi, ai suoi effetti ed all’intensità dell’elemento psicologico dell’agente.


Per la Suprema Corte, il giudice di merito ha tenuto conto, in modo logico, delle concrete circostanze di fatto caratterizzanti l’episodio, vale a dire, lo svolgimento da parte del dipendente sia delle mansioni di autista, sia di carico e scarico delle merci contenute nel furgone, sia delle operazioni di incasso dei relativi prezzi, sia, evidentemente, la commissione da parte di ignoti del furto in questione.

Si tratta di accertamenti di fatto, valutati in modo logico, il cui riesame, se non supportato da adeguate censure, non è possibile in sede di legittimità.

L’azienda aveva, inoltre, lamentato che la Corte di merito, nel valutare la sussistenza della giusta causa di recesso, avesse attribuito maggiore importanza alla valutazione comparativa degli interessi in gioco, piuttosto che all’oggettiva gravità della condotta del lavoratore, costituita dall’aver lasciato incustodito il furgone di lavoro.

A questo proposito il ricorrente aveva chiesto alla Corte di Cassazione se la violazione dell’obbligo di diligenza potesse esimere un lavoratore subordinato dall’obbligo risarcitorio nei confronti del datore di lavoro.

Anche quest’ultimo quesito è stato ritenuto inammissibili dalla Cassazione che ha ricordato come i giudici di appello avessero escluso la responsabilità risarcitoria del lavoratore per le medesime ragioni collegate all’accertamento dell’insussistenza della giusta causa e della connessa responsabilità attribuibile al lavoratore nella determinazione dell’evento.

Valerio Pollastrini