Chi siamo


MEDIA-LABOR Srl - News dal mondo del lavoro e dell'economia


lunedì 30 settembre 2013

Indennità di disoccupazione ASpI per lavoratori subordinati non agricoli


COS’ E’
Si tratta  della prestazione economica  che dal 1° gennaio 2013 ha sostituito l’indennità di disoccupazione ordinaria non agricola con requisiti normali. Può essere richiesta, per gli eventi di disoccupazione che si verificano dal 1° gennaio 2013, a favore dei lavoratori dipendenti che abbiano perduto involontariamente l’occupazione.

A CHI SPETTA
I beneficiari sono i lavoratori con rapporto di lavoro subordinato che abbiano perduto involontariamente l’occupazione, ivi compresi:
  • gli apprendisti;
  • i soci lavoratori di cooperative con rapporto di lavoro subordinato;
  • il personale artistico con rapporto di lavoro subordinato.
  • i dipendenti a tempo determinato delle Pubbliche Amministrazioni;

A CHI NON SPETTA
Non  possono fruire dell’indennità di disoccupazione ASpI:
  • i dipendenti a tempo indeterminato delle Pubbliche Amministrazioni;
  • gli operai agricoli a tempo determinato e indeterminato;
  • i lavoratori extracomunitari con permesso di soggiorno per lavoro stagionale, per i quali resta confermata la specifica normativa.

QUANDO SPETTA
L’indennità spetta in presenza dei seguenti requisiti:

1)   Stato di disoccupazione involontario
L’interessato deve attestare, presso il Centro per l’impiego competente in relazione al proprio domicilio,  la cessazione  dell’attività lavorativa precedentemente svolta e l’immediata disponibilità allo svolgimento di nuova attività lavorativa.

L’indennità, pertanto, non spetta nelle ipotesi in cui il rapporto di lavoro sia cessato a seguito di dimissioni o risoluzione consensuale.
In caso di dimissioni, il lavoratore può percepire ugualmente l’indennità solamente se le stesse siano state rassegnate  durante il periodo tutelato di maternità ovvero in caso dimissioni per giusta causa.

Inoltre, la risoluzione consensuale non impedisce il riconoscimento della prestazione se intervenuta:
  • nell’ambito della procedura conciliativa presso la Direzione Territoriale del Lavoro, secondo le modalità previste all’art. 7 della legge n. 604 del 1966, come sostituito dall’art. 1, comma 40 della legge di riforma del mercato del lavoro (Legge 28 giugno 2012 n.92);
  • a seguito di trasferimento del dipendente ad altra sede distante più di 50 Km dalla residenza del lavoratore e/o mediamente raggiungibile in 80 minuti o più con i mezzi pubblici.

2)   Almeno due anni di assicurazione
In ogni caso, perché il lavoratore abbia diritto all’Aspi devono essere trascorsi almeno due anni dal versamento del primo contributo contro la disoccupazione; il calcolo deve essere effettuato procedendo a ritroso a decorrere dal primo giorno in cui il lavoratore risulta disoccupato.

3)   Ulteriore requisito contributivo
Nel biennio precedente all’inizio del periodo di disoccupazione,  il richiedente deve, inoltre, possedere almeno un anno di contribuzione contro la disoccupazione. Per contribuzione utile si intende anche quella dovuta anche se non effettivamente versata. Ai fini del diritto sono valide tutte le settimane retribuite purché risulti erogata o dovuta per ciascuna settimana una retribuzione non inferiore ai minimi settimanali. La disposizione relativa alla retribuzione di riferimento non si applica ai lavoratori addetti ai servizi domestici e familiari, agli operai agricoli e agli apprendisti per i quali continuano a permanere le regole vigenti.

Ai fini del perfezionamento del requisito contributivo, si considerano utili:
  • i contributi previdenziali comprensivi di quota DS e ASpI versati durante il rapporto di lavoro subordinato;
  • i contributi figurativi accreditati per maternità obbligatoria se all’inizio dell’astensione risulta già versata contribuzione ed i periodi di congedo parentale purché regolarmente indennizzati e intervenuti in costanza di rapporto di lavoro;
  • i periodi di lavoro all’estero in paesi comunitari o convenzionati ove sia prevista la possibilità di totalizzazione (non sono utili i periodi di lavoro all’estero in Stati con i quali l’Italia non ha stipulato convenzioni bilaterali in materia di sicurezza sociale);
  • l’astensione dal lavoro per periodi di malattia dei figli fino agli 8 anni di età nel limite di cinque giorni lavorativi nell’anno solare.

Qualora il lavoratore vanti periodi di lavoro nel settore agricolo e periodi di lavoro in settori non agricoli, i periodi sono cumulabili ai fini del conseguimento dell’indennità di disoccupazione agricola o dell’indennità di disoccupazione ASpI, sulla base del criterio della prevalenza. Per verificare l’entità delle diverse contribuzioni restano fermi i parametri di equivalenza che prevedono 6 contributi giornalieri agricoli per il riconoscimento di una settimana contributiva.
Non sono invece considerati utili, pur se coperti da contribuzione figurativa, i periodi di:
  • malattia e infortunio sul lavoro solo però nel caso in cui  non vi sia integrazione della retribuzione da parte del datore di lavoro, nel rispetto del minimale retributivo;
  • cassa integrazione straordinaria e ordinaria con sospensione dell’attività a zero ore;
  • assenze per permessi e congedi fruiti dal coniuge convivente, dal genitore, dal figlio convivente, dai fratelli o sorelle conviventi di soggetto con handicap in situazione di gravità.
Ai fini della determinazione del biennio per la verifica del requisito contributivo, i suddetti periodi - non considerati utili – devono essere neutralizzati con conseguente ampliamento del biennio di riferimento. 

LA DOMANDA
Il lavoratore deve presentare all’Inps la domanda di accesso all’Aspi, esclusivamente in via telematica, attraverso uno dei seguenti canali:
  • WEB – servizi telematici accessibili direttamente dal cittadino tramite PIN attraverso il portale dell’Istituto;
  • Contact Center multicanale attraverso il numero telefonico 803164 gratuito da rete fissa o il numero 06164164 da rete mobile a pagamento secondo la tariffa del proprio gestore telefonico;
  • Patronati/intermediari dell’Istituto - attraverso i servizi telematici offerti dagli stessi con il supporto dell’Istituto.

La domanda deve essere presentata entro  due mesi dalla data di inizio del periodo indennizzabile così individuato:

a) ottavo giorno successivo alla data di cessazione dell’ultimo rapporto di lavoro;

b) data di definizione della vertenza sindacale o data di notifica della sentenza giudiziaria;

c) data di riacquisto della capacità lavorativa nel caso di un evento patologico (malattia comune, infortunio) iniziato entro gli otto giorni dalla cessazione del rapporto di lavoro;

d) ottavo giorno dalla fine del periodo di maternità in corso al momento della cessazione del rapporto di lavoro;

e) ottavo giorno dalla data di fine del periodo corrispondente all’indennità di mancato preavviso ragguagliato a giornate;

f) trentottesimo giorno successivo alla data di cessazione per licenziamento per giusta causa.

DECORRENZA DELLA PRESTAZIONE
L’indennità di disoccupazione ASpI spetta:
  • dall’ottavo giorno successivo alla data di cessazione del rapporto di lavoro, se la domanda viene presentata entro l’ottavo giorno;
  • dal giorno successivo a quello di presentazione della domanda, nel caso in cui questa sia stata presentata dopo l’ottavo giorno;
  • dalla data di rilascio della dichiarazione di immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa nel caso in cui questa non sia stata presentata all’INPS ma al centro per l’impiego e sia successiva alla presentazione della domanda;
  • dalle date di cui alle lett. c), d), e), f) del precedente paragrafo “la domanda” , qualora la domanda sia stata presentata prima di tali date o dal giorno successivo alla presentazione della domanda, qualora presentata successivamente ma, comunque, nei termini di legge.

DURATA DELLA PRESTAZIONE
La prestazione consiste in un’indennità mensile la cui durata, collegata all’età anagrafica del lavoratore, aumenta gradualmente nel corso del triennio 2013-2015 (periodo transitorio), per essere definita a regime con decorrenza 1° gennaio 2016.

La durata massima della prestazione per il periodo transitorio 2013-2015 è di seguito indicata:  

Periodo transitorio 2013-2015

Anno di cessazione del rapporto di lavoro
 
Età anagrafica
 
 
Inferiore a 50 anni
Pari o superiore a 50 anni ma
inferiore a 55 anni
Pari o superiore a  55 anni
 
2013
8 mesi
12 mesi
12 mesi
 
2014
8 mesi
12 mesi
14 mesi
 
2015
10 mesi
12 mesi
16 mesi
 


IMPORTO DELL’INDENNITA’
La misura della prestazione è pari:
  • al 75% della retribuzione media mensile imponibile ai fini previdenziali degli ultimi due anni, se questa è pari o inferiore ad un importo stabilito dalla legge e rivalutato annualmente sulla base della variazione dell’indice ISTAT (per l’anno 2013 pari ad € 1.180,00). L’importo della prestazione non può comunque superare un limite massimo individuato annualmente per legge.
  • al 75% dell’importo stabilito (per l’anno 2013 pari ad € 1.180,00) sommato al 25% della differenza tra la retribuzione media mensile imponibile ed euro 1.180,00 (per l’anno 2013), se la retribuzione media mensile imponibile è superiore al suddetto importo stabilito.

L’importo della prestazione non può comunque superare un limite massimo individuato annualmente per legge.
All’indennità mensile si applica una riduzione del 15% dopo i primi sei mesi di fruizione ed un’ulteriore riduzione del 15% dopo il dodicesimo mese di fruizione.

Il pagamento avviene mensilmente ed è comprensivo degli Assegni al Nucleo Famigliare se spettanti. L’indennità può essere riscossa:
  • mediante accredito su conto corrente bancario o postale o su libretto postale;
  • mediante bonifico domiciliato presso Poste Italiane allo sportello di un ufficio postale rientrante nel CAP di residenza o domicilio del richiedente. Secondo le vigenti disposizioni di legge, le Pubbliche Amministrazioni non possono effettuare pagamenti in contanti  per prestazioni il cui importo netto superi i 1.000 euro.

NUOVA ATTIVITA’ LAVORATIVA  DURANTE IL PERIODO COPERTO DALL’ASPI
Nel caso di nuova occupazione del soggetto assicurato con contratto di lavoro subordinato, l’erogazione della prestazione ASpI è sospesa d’ufficio per un periodo massimo di sei mesi; al termine della sospensione l’indennità riprende  ad essere corrisposta per il periodo residuo spettante al momento in cui l’indennità stessa era stata sospesa.

Il soggetto titolare dell’indennità di disoccupazione ASpI può svolgere attività lavorativa di natura meramente occasionale (lavoro accessorio), senza perdere il diritto all’Aspi, purché la stessa non dia luogo a compensi superiori a 3.000 euro (al netto dei contributi previdenziali) nel corso dell’anno solare 2013.

In caso di svolgimento di lavoro autonomo o parasubordinato, dal quale derivi un reddito inferiore al limite utile alla conservazione dello stato di disoccupazione, il soggetto titolare dell’indennità di disoccupazione ASpI deve, a pena di decadenza, informare l’INPS entro un mese dall’inizio dell’attività, dichiarando altresì il reddito annuo che prevede di trarre dall’attività.
Nel caso in cui il reddito rientri nel limite di cui sopra, l’indennità di disoccupazione è ridotta di un importo pari all’80% dei proventi preventivati. Qualora il soggetto intende modificare il reddito dichiarato, può farlo attraverso nuova dichiarazione “a montante”, cioè comprensiva del reddito in precedenza dichiarato e delle variazioni a maggiorazione  o a diminuzione. In tal caso l’indennità verrà rideterminata.

DECADENZA DALL’INDENNITA’
Il beneficiario decade dall’indennità nei seguenti casi:
  • perdita dello stato di disoccupazione;
  • rioccupazione con contratto di lavoro subordinato superiore a 6 mesi;
  • inizio attività autonoma senza comunicazione all’INPS;
  • pensionamento di vecchiaia o anticipato;
  • assegno ordinario di invalidità, se non si opta per l’indennità;
  • rifiuto di partecipare, senza giustificato motivo, ad una iniziativa di politica attiva (attività di formazione, tirocini ecc.) o non regolare partecipazione;
  • mancata accettazione di un’offerta di lavoro il cui livello retributivo sia superiore almeno del 20% dell’importo lordo dell’indennità.

Valerio Pollastrini

Rifiuto del lavoratore di eseguire prestazioni diverse dalle mansioni abituali


Nella sentenza n.21922 del 25 settembre 2013 la Corte di Cassazione ha confermato l’illegittimità del licenziamento irrogato ad una lavoratrice che, in mancanza di un ordine specifico impartito per iscritto, si era rifiutata di eseguire una prestazione diversa dalle mansioni abitualmente svolte.

I giudizi di merito
La Corte di Appello di Milano, riformando parzialmente la decisione del giudice di primo grado, aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento, condannando  il datore di lavoro a reintegrare la lavoratrice nel posto di lavoro, oltre al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a trentasei mesi di retribuzione globale di fatto.

Per la Corte territoriale  la richiesta di apportare con il pc delle modifiche al catalogo prodotti  esulava dalla mansioni della lavoratrice - impiegata addetta al marketing- e, oltretutto, era estranea alla formazione professionale della stessa, richiedendo  competenze specifiche superiori rispetto all’uso del programma Foto-shop conosciuto dalla lavoratrice.
Il giudice di appello giustificava, pertanto, l’istanza della lavoratrice volta ad ottenere l’assegnazione di tali compiti per iscritto, sia in ragione della particolare complessità tecnica del lavoro,  sia in ragione delle possibili responsabilità in caso di errori nell’esecuzione, oltre che in considerazione del fatto che i compiti in questione fossero estranei alle mansioni di impiegata amministrativa svolte fino a quel momento.

Per la Corte milanese la sanzione espulsiva era quindi illegittima sia sotto il profilo della giusta causa che di quello del giustificato motivo soggettivo. La condotta della lavoratrice, al massimo, avrebbe potuto configurare  una lieve insubordinazione, punibile, ai sensi di quanto disposto dal contratto collettivo applicato, con una sanzione conservativa.

La società si era quindi rivolta alla Cassazione, precisando che la lavoratrice vantava un curriculum con esperienza nel settore informatico e che il datore di lavoro le aveva fatto seguire un corso di specializzazione professionale Photo-shop, avente ad oggetto la definizione delle immagini digitali, tecniche di fotoritocco, circostanza, questa, sufficiente ad includere la prestazione richiesta tra le mansioni di inquadramento.
Nel ricorso l’azienda richiamava  un precedente della Cassazione (1) in base al quale il rifiuto di eseguire la prestazione da parte del lavoratore sarebbe sempre illegittimo, deducendone anche l’illegittimità  della richiesta che l’ordine venisse impartito per iscritto.

La pronuncia della Cassazione
La Suprema Corte ha preliminarmente affrontato la censura datoriale in base alla quale la frequenza ad un corso per il programma Photo-shop comportasse l’inclusione automatica della prestazione richiesta  tra le mansioni della lavoratrice.

Sul punto il giudice di appello, con valutazione compiuta in base ad un accertamento di fatto, aveva espressamente affermato che l’attività richiesta, per la sua complessità tecnica, implicava conoscenze informatiche superiori a quelle del programma Photo-shop conosciuto dalla lavoratrice. Si tratta di un  giudizio che per la Cassazione non può essere sindacato in sede di legittimità, ove, come nel caso di specie,  logicamente motivato.
La Cassazione ha poi negato ogni valore al richiamato precedente della stessa Corte, poiché  riferito ad un  caso di totale inadempimento del lavoratore (2), mentre, nel caso di specie, invece di un rifiuto tout court di eseguire la prestazione, vi era stata solamente la richiesta di un ordine scritto di assegnazione dei nuovi compiti.

Il giudice di merito aveva giustificato tale pretesa, valorizzando, tra le altre, la circostanza delle possibili responsabilità per la lavoratrice in caso di errore nell’esecuzione di compiti che erano risultati estranei non solo alle mansioni di impiegata amministrativa ma alla formazione professionale della dipendente. Inoltre, a detta della Cassazione, l’adozione della forma scritta nell’assegnazione di nuovi compiti al dipendente, in linea generale, non si pone in contrasto né con i poteri organizzativi e direttivi del datore di lavoro, né appare tale da pregiudicare l’efficienza e l’ordinato svolgimento dell’attività di produzione.

Tenuto conto della peculiarità della vicenda e, soprattutto, del fatto che le prestazioni richieste fossero estranee al bagaglio professionale della lavoratrice, la pretesa di ricevere una formalizzazione per iscritto dell’ordine era stata considerata legittima dal giudice di appello attraverso una valutazione rispondente, per la Cassazione, ai criteri di logicità e congruità.

Per tali motivi  la Suprema Corte ha confermato quanto disposto dalla Corte di Appello di Milano e, nel respingerne il ricorso, ha condannato l’azienda  al pagamento delle spese di giudizio liquidate in € 50,00 per esborsi e 4.000,00 per  compensi professionali, oltre accessori di legge.

Valerio Pollastrini


(1) - Cass. n. 25313 del 2007;

(2) - tra le altre, Cass. n. 12696 del 2012, n. 29832 del 2008, n. 25313 del 2007;

L’Inps è chiamata a rispondere delle conseguenze dei conteggi errati


Nella sentenza n.21454 del 19 settembre 2013 la Corte di Cassazione ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno al lavoratore che, in seguito ai conteggi errati dell’Inps, si era dimesso per raggiunti requisiti contributivi.

La Corte ha ricordato alcuni precedenti in base ai quali il danno subito dal lavoratore che sia stato indotto alla anticipata cessazione del rapporto di lavoro, a seguito di errata comunicazione dell’Inps sulla propria posizione contributiva, e che si sia visto poi rigettare la domanda di pensione di anzianità per insufficienza dei contributi versati, in quanto fondato sul rapporto giuridico previdenziale, è riconducibile ad illecito contrattuale. (1)

La Corte ha ricordato come già in altre occasioni ha avuto modo di esaminare la questione di lavoratori che avevano rassegnato le dimissioni sul presupposto, poi rivelatosi errato, di avere maturato i requisiti di anzianità necessari per beneficiare della pensione dopo avere esaminato gli estratti conto provenienti dall’INPS attestanti il raggiungimento di un numero di contributi utile a tal fine  (2) ed ha affermato che il lavoratore indotto alle dimissioni da colpevole comportamento dell’INPS, che gli abbia erroneamente comunicato il perfezionamento del requisito contributivo per il conseguimento della pensione di anzianità, ha diritto al risarcimento del danno in un importo commisurabile a quello delle retribuzioni perdute fra la data della cessazione del rapporto di lavoro e quella dell’effettivo conseguimento della detta pensione, in forza del completamento del periodo di contribuzione a tal fine necessario, ottenuto col versamento di contributi volontari, da sommarsi a quelli obbligatori anteriormente accreditati.

Valerio Pollastrini


(1) - Cass. sent. 3195 del 2012 e 15083 del 2008; ex plurimis, Cass. sent. n. 19340 del 2003, n. 5002 del 2002, n. 6995 e 6867 del 2001, n. 14953 del 2000, n. 9776 del 1996;

(2) - Cass. n. 1104 del 2003; v. pure Cass. n. 6995 del 2001 e n. 5002 del 2002;

sabato 28 settembre 2013

Rifiuto di eseguire un ordine alla fine del turno


Nella sentenza n.21361 del 18 settembre 2013 la Corte di Cassazione ha compiuto una disamina sulla  corretta applicazione della normativa sull’orario di lavoro.

Il caso è quello di un metronotte che si era rifiutato di intervenire in seguito alla richiesta formulata dalla centrale operativa su un allarme scattato poco prima della fine del suo turno.

In virtù dell’art.75 del CCNL applicato, che obbliga il personale smontante o già smontato ad effettuare il servizio nel ricorso di condizioni oggettive che lo richiedano, l’azienda aveva disposto il licenziamento del lavoratore.
 
I primi gradi di giudizio
Sia il Tribunale di Pistoia che la Corte di Appello di Firenze, ravvisando nella condotta del lavoratore quella insubordinazione che giustifica, a norma dell’art. 127 del CCNL della Vigilanza Privata, la risoluzione del rapporto, ne avevano respinto il ricorso, confermando la legittimità dell’atto di recesso.

La Corte di merito aveva inoltre aggiunto che una simile conclusione fosse stata ulteriormente confermata dall’ esistenza di numerose e rilevanti sanzioni disciplinari inflitte nel biennio antecedente al licenziamento ed anche precedenti, tutte idonee a confermare la gravità della contestata infrazione alla luce dell’ormai reiteratamente compromesso rapporto di fiducia.

Il lavoratore aveva ricorso per la cassazione del giudizio di appello, lamentando  che la richiesta datoriale  di protrarre l’orario di lavoro oltre le otto ore notturne avrebbe violato le norme di legge sulla durata massima della prestazione. La richiesta di intervento sull’allarme, formulata a soli dieci minuti dalla scadenza dell’orario giornaliero, sarebbe quindi stata  arbitraria, motivo per cui era stata disattesa.

Per il ricorrente l’interpretazione fornita dalla Corte d’Appello sarebbe inconciliabile con il diritto del lavoratore a godere con modalità programmabile e prevedibile, del dovuto tempo libero, o più correttamente riposo. Inoltre, il richiamato art.75 del CCNL nulla prevedrebbe circa la possibilità di superare l’orario di otto ore di lavoro notturno.

La pronuncia della Cassazione
Per rispondere alle doglianze del lavoratore la Suprema Corte ha compiuto una puntuale ricostruzione del dettato normativo che regola l’orario di lavoro del personale addetto ai turni di notte.

Invero, l’art. 4, comma 1, del d.lgs. n. 532 del 1999 sancisce che “ l’orario di lavoro dei lavoratori notturni non può superare le otto ore nelle ventiquattro ore”, tuttavia, la norma consente  ai contratti collettivi, anche aziendali, di fissare “un orario di lavoro plurisettimanale, per un periodo di riferimento più ampio sul quale calcolare come media il suddetto limite.”
Si tratta di una disposizione che  ha trovato piena attuazione nella contrattazione collettiva di riferimento al caso di specie. L’art. 71 del CCNL applicato  dispone infatti  che, nonostante l’orario di lavoro fissato per legge in 40 ore settimanali,  tenuto conto delle obiettive necessità di organizzare i turni di lavoro in maniera da garantire la continuità nei servizi di tutela del patrimonio pubblico e privato affidato agli Istituti di Vigilanza, la durata massima dell’orario di lavoro, comprese le ore di straordinario, non potrà superare le 48 ore ogni periodo di sette giorni, calcolate come media, riferita ad un periodo di mesi 12, decorrenti dal 1° gennaio di ogni anno (…)” e che “...il lavoratore del turno smontante non può lasciare il posto di lavoro senza prima aver avuto la sostituzione, del lavoratore del turno montante, che dovrà avvenire entro due ore e mezza dal termine del normale orario giornaliero (...)”.

Dopo aver riepilogato la disciplina legale e contrattuale, la Corte ha rilevato come tale modalità di flessibilizzazione dell’orario consenta il corretto avvicendamento nel servizio, assicurando la presenza di personale per fare fronte a esigenze impreviste e non rientranti nella normale organizzazione del lavoro, quale può essere concretamente qualificata la necessità di provvedere ad un intervento in prossimità della fine del turno di servizio con, solo eventuale, superamento del limite di otto ore.
Per tale motivo la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso del lavoratore, condannandolo al pagamento delle spese del giudizio liquidate in € 3000,00 per compensi professionali ed in € 50,00 per esborsi, oltre accessori dovuti per legge.

Valerio Pollastrini

giovedì 26 settembre 2013

Legittimo il contratto a chiamata per l’addetto all’inventario


Il D.lgs n.276/2003 ha previsto  due distinte causali per il legittimo ricorso al rapporto di lavoro intermittente, una soggettiva, con riferimento ai lavoratori, ed una oggettiva, riguardante le specifiche mansioni.

L’ipotesi di natura soggettiva riguarda tutti i  lavoratori ultracinquantenni e quelli con meno di ventiquattro anni di età.

La causale oggettiva, comprende, altresì, le prestazioni di carattere discontinuo o intermittente, individuate dai contratti collettivi stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero per periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno.

In assenza delle disposizioni contrattuali, la norma ha previsto, inoltre, il ricorso al lavoro intermittente per le tipologie lavorative indicate nella tabella allegata al R.D n.2657/1923.

Attraverso l’interpello n.26 del 20 settembre 2013 il Ministero del lavoro ha compiuto un’analisi interpretativa inerente alle mansioni indicate nella citata tabella.

Il Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro aveva chiesto delucidazioni sulla figura dell’addetto all’attività di inventario, incaricato al conteggio di prodotti e colli, stoccati o esposti in vendita, mediante l’utilizzo di specifiche attrezzature fornite dal datore di lavoro.

L’istante aveva chiesto, in particolare, se la suddetta figura, impiegata presso società specializzate nell’attività di inventario, fosse assimilabile alla categoria professionale dei “pesatori, magazzinieri, dispensieri ed aiuti”, contemplata nella tabella allegata al R.D n.2657/1923 tra quelle legittimanti il ricorso al lavoro a chiamata.

Nella risposta, il Ministero ha chiarito preliminarmente che quella dei “pesatori, magazzinieri, dispensieri ed aiuti” è una qualifica rivolta alle categorie professionali impiegate nella quantificazione, sistemazione ed organizzazione di differenti tipologie di merce verosimilmente in diversi periodi dell’anno.

Si tratta di una nozione estendibile agli addetti agli inventari, nella misura in cui risultino incaricati di espletare un’attività consistente nel conteggio di prodotti secondo le direttive ricevute dal coordinatore, in occasione della redazione del bilancio ovvero della chiusura del trimestre e dell’anno solare e/o fiscale.

In conclusione – questo il parere del Ministero - la tipologia di contratto di lavoro intermittente risulta configurabile anche nei confronti dell’addetto all’attività di inventario in quanto rientrante nelle figure declinate al n.6 della tabella allegata al R.D. n.2657/1923 con particolare riferimento a quelle dei pesatori e magazzinieri.

Valerio Pollastrini

martedì 24 settembre 2013

Riduzione del personale: l’appartenenza ad un reparto soppresso non giustifica il licenziamento


Nella sentenza n.17177 dell’11 luglio 2013 la Corte di Cassazione è tornata ad affrontare la questione dei criteri di scelta che l’azienda deve utilizzare per individuare in maniera oggettiva i lavoratori colpiti da  licenziamento per riduzione del personale.

Per tale fattispecie di recesso il dettato normativo è costituito  dalla legge n.223/1991, il cui comma 1, art.5, dispone che “l’'individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità deve avvenire, in relazione alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale, nel rispetto dei criteri previsti dai contratti collettivi stipulati con i sindacati (…) ovvero, in mancanza di questi contratti, nel rispetto dei seguenti criteri, in concorso tra loro: a) carichi di famiglia; b) anzianità; c) esigenze tecnico-produttive ed organizzative".

Il primo richiamo della norma alle “esigenze tecnico-produttive ed organizzative” si riferisce all’individuazione dell’ambito aziendale all’interno del quale dovranno essere operati i criteri di scelta veri e propri. Il secondo richiamo specifica, invece, che, in caso di utilizzabilità dei criteri legali, debba essere considerato anche quello delle esigenze tecnico produttive e organizzative.

Per quanto riguarda l’ambito aziendale nel quale può essere circoscritta la scelta dei lavoratori in esubero, la Suprema Corte ha tratto spunto dai propri precedenti, ricordando come la riduzione di personale debba investire l'intero complesso aziendale, potendo essere limitata a specifici rami aziendali solamente se caratterizzati da autonomia e specificità delle professionalità utilizzate, infungibili rispetto alle altre (1).

Ciò di per sé chiarisce i motivi del doppio richiamo operato nel citato art.5 alle "esigenze tecnico-produttive ed organizzative" che, nella prima parte, evidenziano l'ambito di selezione, mentre, nella seconda,  concorrono, in un momento successivo, con gli altri criteri dell'età e del carico di famiglia, all'individuazione del singolo lavoratore, salvo che non operino altri criteri specificamente concordati con i sindacati.

Sempre richiamando i propri precedenti in materia, la Corte ha affermato che, per limitare la platea dei lavoratori interessati alla riduzione del personale ai soli addetti ad un determinato reparto o settore, il datore di lavoro deve operare esclusivamente in base ad oggettive esigenze aziendali relative al progetto di ristrutturazione. In sostanza, il datore di lavoro deve provare  le ragioni che impongano  l'oggettiva limitazione  a  queste esigenze, e giustificare il più ristretto spazio nel quale la scelta sia  stata effettuata (2).

Sulla base di questa ricostruzione ed in virtù dei principi più volte affermati, la Corte ha, pertanto, concluso che non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto lavorativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative dell’azienda (3). 

 
Valerio Pollastrini

 
(1)   -  Cass. 14 giugno 2007 n. 13876 e, in precedenza, Cass. sent. nn. 7752/06, 9888/06, 11034/06 e 11886/06;

(2)   - Cass. 23 giugno 2006, n. 14612;

(3) - Cass. n. 14 612/06, n. 25353/09, n. 9711/11; v. pure Cass. n. 2637 6/08, n. 11034/0 6, n. 13783/06;      

domenica 22 settembre 2013

Gli estremi che configurano la violazione dell’obbligo di fedeltà


Nella sentenza n.19096 del 9 agosto 2013 la Corte di Cassazione ha tracciato in maniera estensiva i limiti degli obblighi di fedeltà posti a carico del lavoratori nei confronti dell’azienda, includendo tra le ipotesi legittimanti il licenziamento la semplice partecipazione del dipendente alla costituzione di una società il cui oggetto sociale evidenzi una futura attività concorrenziale con quella del datore di lavoro.


Il fatto
La “Cedisa”,  azienda impegnata nel campo sanitario, aveva licenziato un proprio dipendente, dopo averne accertato la partecipazione   alla costituzione della  “Pegasus”, società per la gestione di un centro medico.

Il lavoratore aveva impugnato il provvedimento dinnanzi al Tribunale di Salerno, precisando che, al momento del licenziamento, la “Pegasus” non avesse ancora iniziato l'attività.

 
I giudizi di merito
Nel primo grado di giudizio, il Tribunale aveva annullato il licenziamento. Tale decisione era stata però  integralmente riformata dalla Corte di Appello di Salerno, che, di contro, aveva ritenuto legittimo il recesso, giudicando la costituzione della “Pegasus” come potenzialmente produttiva di danno per la “Cedisa”.

Il lavoratore aveva, pertanto, proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte salernitana per vizi di motivazione e violazione di legge.

 
La pronuncia della Cassazione
Nel rigettare il ricorso, confermando la legittimità del licenziamento, la Suprema Corte ha ricordato quanto più volte affermato  a proposito dell'obbligo di fedeltà a carico del lavoratore subordinato.

I principi generali di correttezza e buona fede, sanciti dagli  artt. 1175 e 1375 cod. civ., impongono al lavoratore di tenere un comportamento leale nei confronti del proprio datore di lavoro, astenendosi da qualsiasi atto idoneo a nuocergli anche potenzialmente.  Ai finì della violazione del correlato obbligo di fedeltà, incombente sul lavoratore ai sensi  dell’art. 2105 cod. civ., risulta sufficiente la mera preordinazione di una attività contraria agli interessi del datore di lavoro anche solo potenzialmente produttiva di danno (1).

Più volte la Cassazione ha precisato che la costituzione, da parte di un lavoratore,  di una società per lo svolgimento della medesima attività economica del datore di lavoro deve valutarsi come potenzialmente produttiva di danno ed integri così la violazione del dovere di fedeltà (2).

Sempre traendo spunto dai propri precedenti, la Corte ha ribadito che l’obbligo di fedeltà impone al lavoratore di astenersi dal porre in essere, non soltanto i comportamenti espressamente vietati dall'art. 2105 cod. civ., ma anche qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa, ivi compresa la mera preordinazione di attività contraria agli interessi del datore di lavoro potenzialmente produttiva di danno (3).  

L’obbligo di fedeltà deve dunque essere interpretato in considerazione del suo collegamento con i principi generali di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 cod. civ., dai quali deriva l'obbligo di astensione  da qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le  possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi all'inserimento del lavoratore nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o crei situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o sia comunque idonea a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto (4).  

In relazione al caso di specie, l’analisi riepilogativa dei precedenti della giurisprudenza di legittimità  ha indotto la Suprema Corte a ritenere violato l'obbligo di fedeltà anche in presenza di una condotta di mera predisposizione di una attività contraria agli interessi del datore di lavoro.

La Corte ha osservato  come l’estensione della violazione dell'art. 2105 cod. civ. ad attività solo potenzialmente lesive non costituisca un processo alle intenzioni.

In sostanza, l’analisi relativa al rispetto dell’obbligo di fedeltà non può limitarsi esclusivamente all’attività concreta e alla sua lesività attuale, dovendosi parimenti spingersi alle azioni sintomatiche di un atteggiamento mentale del dipendente in aperto contrasto con la leale collaborazione posta a fondamento del rapporto di lavoro (5).

La Corte, in conclusione, ha affermato come anche la semplice possibilità del verificarsi di effetti dannosi per gli interessi del datore di lavoro, sia, di per sé, idonea ad integrare gli estremi dell'intenzionalità dell'infrazione.

 
Valerio Pollastrini

(1) - Cass. sent n. 12489 del 2003;

(2) - Cass. sent n.6654 del 2004, n. 16377 del 2006;

(3) -  Cass. n. 2474 del 2008;

(4) - Cass. n. 6957 del 2005; v. pure Cass. n. 14176 del 2009;

(5) - Cass. nn. 1143 e 7427 del 1995, n. 512 del 1997, n. 8208 del 1998, nn. 7990 e 13906 del 2000;